Tradução italiana de “Os Três Mal-Amados”, João Cabral de Meto Neto (1943).
Mal d’amore
Il titolo originale di questa piccolo monologo a tre voci è “Os três mal-amados” (1943), letteralmente i tre malamati, ma tradotto col titolo Mal d’amore. João Cabral de Melo Neto (1920-1999) lo ha scritto ispirandosi ad una poesia de Carlos Drummond De Andrade (1902-1987), il cui titolo è Quadrilha (1930) in italiano Quadriglia, i gruppi di quattro persone che eseguono balli popolari, mutando costantemente il partner attraverso uno scambio di posizioni .
A seguire un piccolo estratto di Quadrilha per poter entrare nello spirito di Mal d’amore.
João amava Teresa che amava Raimundo
che amava Maria che amava Joaquim
che amava Lili…
João: Guardo Teresa. È seduta qui accanto a me, a pochi centimetri. A pochi centimetri, molti chilometri. Perché questa sensazione che mi servirebbero chilometri per misurare la distanza, la lontananza in cui la vedo in questo momento?
Raimundo: Maria era la spiaggia dove andavo alcune mattine. I miei gesti inevitabili, compiuti all’aria aperta, così aperta che essa stessa ne definiva i confini. I miei gesti semplificati innanzi a estensioni i cui segreti erano stati aboliti da una luce diffusa.
Joaquim: L’amore ha divorato il mio nome, la mia identità, la mia foto. L’amore ha divorato la mia carta d’identità, la mia genealogia, il mio indirizzo. L’amore ha divorato i miei biglietti da visita. L’amore è arrivato e ha divorato tutti i fogli su cui avevo scritto il mio nome.
João: Guardo Teresa come se guardassi il ritratto di un’antenata vissuta in un altro secolo. O come se guardassi un volto in un altro continente, attraverso un telescopio. La vedo come se fosse ricoperta da una polvere leggerissima o da un’aria azzurrognola che avvolge le persone distanti da noi molti anni o molte leghe.
Raimundo: Maria è sempre stata una spiaggia, il posto dove mi sento esatto e nitido come una pietra — un dettaglio, una fuga, un eccesso subito evaporati. Maria era il mare di questa spiaggia, senza mistero, né profondità. Elementare, come le cose che possono mutare in vapore o polvere.
Joaquim: L’amore ha divorato i miei vestiti, i fazzoletti al taschino, le mie camicie. L’amore ha divorato metri e metri di cravatte. L’amore ha divorato la taglia dei miei vestiti, il numero delle mie scarpe, la circonferenza dei miei cappelli. L’amore ha divorato la mia altezza, il mio peso, il colore dei miei occhi e i miei capelli.
João: Posso dire che questa ragazza accanto a me è la stessa Teresa che per tutto il giorno, per effetto del gas dei sogni, ho sentito attaccata a me?
Raimundo: Maria era anche una fontana. Il liquido che sarebbe cominciato a zampillare in un momento che potevo prevedere, in un punto che avrei potuto esaminare, in circostanze che avrei potuto controllare. Aspiravo ad accompagnare con gli occhi la crescita di un arbusto, il sorgere di uno zampillo di acqua.
Joaquim: L’amore ha divorato le mie medicine, le mie ricette mediche, le mie diete. Ha divorato le mie aspirine, il mio elettrocardiogramma, le mie radiografie. Ha divorato il mio elettroencefalogramma, gli esami delle mie urine.
João: Questa è la stessa Teresa che la scorsa notte ho conosciuto in tutta la sua intimità? Posso dire di averla vista, di averle parlato, posso dire di averla avuta in tutta la sua intimità? Quale intimità più grande, se non quella del sogno? Quel sogno che porto ancora dentro di me come se avessi un oggetto pesante in tasca?
Raimundo: Maria non era un corpo indefinito, impreciso. Ne conoscevo tutti i dettagli. Avrei potuto ricostruirlo ogni volta che lo volevo. La sua bocca, il suo sorriso irregolare. Non mi sarebbe stato difficile riordinare tutti questi dettagli, ricomporla come in un gioco di costruzioni o una scheda di anatomia.
Joaquim: L’amore ha divorato tutti i miei libri di poesia sullo scaffale. Ha divorato i miei libri di prosa, le citazioni in versi. Ha divorato nel dizionario le parole che avrebbero potuto unirsi in versi.
João: Mi sembra di sentire ancora il mare del sogno che ha inondato la mia stanza. Sento ancora l’onda arrivare al mio letto. Mi ritorna ancora lo spavento di svegliarmi tra mobili e pareti che non capivo come mai potessero essere rimasti asciutti. E senza nessun segnale di quell’acqua che il sole aveva asciugato, ma al cui contatto ancora mi sento infreddolito e mezzo umido (adesso penso che sarebbe più giusto, del mare del sogno, dire che il sole lo ha messo in fuga, perché i sogni sono come gli uccelli non solo perché crescono e vivono nell’aria).
Raimundo: Maria era anche, certi pomeriggi, un campo ricoperto di cemento che attraversavo per arrivare da qualche parte. Solo sulla terra e sotto un sole che mi avrebbe fatto evaporare da qualsiasi nuvola.
Joaquim: Vorace, l’amore ha divorato gli utensili che usavo: pettine, rasoio, spazzole, forbici, coltellino svizzero. Con ancora più voracia, l’amore ha divorato l’uso dei miei utensili: le mie docce fredde, l’opera cantata in bagno, lo scaldabagno dell’acqua ormai in disuso, ma che ancora sembrava la caldaia di una fabbrica.
João: Teresa è qui, a portata di mano, del mio parlare. Perché, intanto, mi sento senza nessun diritto fuori da quel mare? Ignorante di gesti, di parole?
Raimundo: Maria era anche un albero. Uno di quegli organismi solidi e pratici attaccati alla terra con le radici che la esplorano e ne invadono i segreti. E allo stesso tempo lanciati verso il cielo, con cui scambia i suoi gas, i suoi uccelli, i suoi movimenti.
Joaquim: L’amore ha divorato la frutta sul tavolo. Ha bevuto l’acqua dai bicchieri e dalle brocche. Ha divorato il pane, nascosto di proposito. Ha bevuto le lacrime degli occhi che, nessuno lo sapeva, erano gonfi d’acqua.
João: Il sogno ritorna, mi coinvolge di nuovo. L’onda torna a sbattere contro la sedia, minaccia di arrivare al tavolo. Penso che, in mezzo a tutta questa gente di terra, gente che sembra aver creato radici, come un contadino o una collina, sono l’unico a sentire questo mare. Chissà Teresa…
Raimundo: Maria era anche una bottiglia di grappa. Avvicino l’orecchio a questa forma perfetta ed esplorabile, ne percepisco il rumore, i movimenti di sogni possibili. Percepisco, ancora, nella sua materia liquida, sogni che metterò in ordine, sottometterò al mio tempo e alla mia volontà, sogni che toccherò con le mani.
Joaquim: L’amore è tornato per divorare i fogli dove automaticamente avevo ricominciato a scrivere il mio nome.
Joao: Chissà Teresa… Sì, chi mi dirà che questo oceano non ci è comune?
Raimundo: Maria era anche un giornale. Il mondo ancora caldo, nella sua ultima e più recente edizione.
Joaquim: L’amore ha rosicchiato la mia infanzia, di dita sporche di pittura, di frangia sugli occhi, di stivaletti mai lucidati. L’amore ha rosicchiato il bambino schivo, sempre in un angolo e che scriveva sui libri, mordeva le matite, andava per strada dando calci alle pietre. Ha rosicchiato i discorsi fatti alla pompa di benzina della piazzetta con i cugini che sapevano tutto di passeri, donne e automobili.
João: Posso sperare che questo oceano ci sia comune? Un sogno è una mia creazione nata dal mio tempo dormiente o esiste in esso una qualche partecipazione esterna, di tutto l’universo, della sua geografia, della sua storia, della sua poesia?
Raimundo: Maria era anche un libro di terrore: un terrore di cui abbiamo la certezza, un terrore da praticare, con cui esercitarsi per poter sentire la voce di una sedia, di una cassettiera; terrore nascosto con attenzione, come un qualsiasi animale velenoso tra foglie chiare e organizzate di una foresta numerata che porta distici esplicativi: poesia, poesie, versi.
Joaquim: L’amore ha divorato il mio stato e la mia città. Ha drenato l’acqua morta delle rive limacciose, ha abolito la marea. Ha divorato le piante crespe dalle foglie dure degli stagni salmastri, ha divorato il verde acido delle piante di canna che coprono le colline regolari tagliate dalle barriere rosse, dal trenino nero, dai focolari. Ha divorato l’odore della canna tagliata e l’odore della brezza di mare. Ha persino divorato cose non mi immaginavo perché non sapevo parlar d’esse in versi.
João: L’arbusto o la pietra apparsi in un sogno qualsiasi possono rimanere indifferenti alla vita della quale sono partecipi? Possono ignorare il mondo che pure contribuiscono a popolare? È possibile che sentano questa partecipazione, questi fantasmi, in questa Teresa, ad esempio, ora distratta e distante? Esiste un qualche segnale che le faccia comprendere che siamo stati, insieme, pesci di uno stesso mare?
Raimundo: Maria era anche un foglio bianco, barriera opposta al fiume impreciso che scorre in alcune regioni da qualche parte dentro di noi. In questo foglio costruirò un oggetto solido che in seguito imiterò, e che poi mi definirà. Penso di scegliere: una poesia, un disegno, del cemento armato — presenze dure e immutabili, opposte alla mia fuga.
Joaquim: L’amore ha divorato i giorni non ancora annunciati dal calendario. Ha divorato i minuti di un anticipo del mio orologio, gli anni che le linee della mia mano mi avevano assicurato. Ha divorato il futuro grande atleta, il futuro grande poeta. Ha divorato i futuri viaggi attorno al mondo, i futuri scaffali attorno al soggiorno.
João: Da dove mi è saltata fuori l’idea che Teresa possa sentirsi partecipe di un universo privato, chiuso nei miei ricordi? Di questo mondo che, attraverso la mia franchezza, ho capito essere l’unico dove mi sarà possibile compiere gli atti più semplici, come ad esempio, camminare, bere un bicchier d’acqua, scrivere il mio nome? Niente, nemmeno la stessa Teresa.
Raimundo: Maria era anche il sistema fissato in antecedenza, fine ultimo cui arrivare. Era quella lucidità, che, lei sola, può darci un modo nuovo e completo di vedere un fiore, di leggere un verso.
Joaquim: L’amore ha divorato la mia pace e la mia guerra. Il mio giorno e la mia notte. Il mio inverno e la mia estate. Ha divorato il mio silenzio, il mio mal di testa, la mia paura della morte.
Nota: Nella versione originale lo scrittore usa il verbo comer, roer e devorar per indicare l’azione compiuta dall’amore nelle battute di Joaquim. Sono tutti verbi legati all’uso della bocca e dei denti per l’ingestione di cibi. Il verbo roer, in relazione agli esseri umani è legato all’idea di mangiare le unghie, e in relazione agli animali, al rodere dei roditori. Nella versione tradotta ho dovuto venir meno alla gradazione di intensità di questi verbi, visto che comer, che potrebbe essere tradotto con un normalissimo mangiare, in portoghese può essere usato con un intensità più forte, tanto da indicare anche la consumazione di una relazione sessuale. In questo testo tradurre l’amore ha mangiato (…) avrebbe fatto perdere buona parte della forza semantica propria della parola portoghese. Ho optato, pertanto, per l’eleiminazione della gradazione tra comer e devorar per non perdere la potenza semantica del verbo più usato nelle battute di Joaquim. Quanto al verbo roer, sebbene prossimo alla parola unghie con una chiara allusione all’idea di mangiare le unghie, si è preferito mantenerlo con la traduzione di rodere, per poter mantenere una gradazione semantica che non fosse al ribasso dopo divorare, visto che già si era persa la gradazione anteriore tra comer e devorar. Oltretutto il verbo rodere trasmette l’idea di logoramento che credo sia il proposito dell’autore. Quanto alle altre scelte traduttive, non mi sembra necessario spiegarle, un buon traduttore concorderà o discorderà e un buon lettore apprezzerà.
“Os Três Mal-Amados”, João Cabral de Meto Neto (1943).
João: Olho Teresa. Veja-a sentada aqui a meu lado, a poucos centímetros de mim. A poucos centímetros, muitos quilômetros. Por que essa impressão de que precisaria de quilômetros para medir a distância, o afastamento em que a vejo neste momento?
Raimundo: Maria era a praia que eu frequentava certas manhãs. Meus gestos indispensáveis que se cumpriam a um ar tão absolutamente livre que ele mesmo determina seus limites, meus gestos simplificados diante de extensões de que uma luz geral aboliu todos os segredos.
Joaquim: O amor comeu o meu nome, minha identidade, meu retrato. O amor comeu a minha certidão de idade, minha genealogia, meu endereço. O amor comeu meus cartões de visita. O amor veio e comeu todos os papéis onde eu escrevera meu nome.
João: Olho Teresa como se olhasse o retrato de uma antepassada que tivesse vivido em outro século. Ou como se olhasse um vulto em outro continente, através de um telescópio. Vejo-a como se a cobrisse a poeira tenuíssima ou o ar quase azul que envolvem as pessoas afastadas de nós muitos anos ou muitas léguas.
Raimundo: Maria era sempre uma praia, lugar onde me sinto exato e nítido como uma pedra – meu particular, minha fuga, meu excesso imediatamente evaporados. Maria era o mar dessa praia, sem mistério e sem profundeza. Elementar, como as coisas que podem ser mudadas em vapor ou poeira.
Joaquim: O amor comeu minhas roupas, meus lençóis, minhas camisas. O amor comeu metros e metros de gravatas. O amor comeu a medida de meus ternos, o número de meus sapatos, o tamanho de meus chapéus. O amor comeu minha altura, meu peso, a cor de meus olhos e de meus cabelos.
João: Posso dizer dessa moça a meu lado que é a mesma Teresa que durante todo o dia de hoje, por efeito do gás do sonho, senti pegada a mim?
Raimundo: Maria era também uma fonte. O líquido que começaria a jorrar num momento que eu previa, num ponto que eu poderia examinar, em circunstâncias que eu poderia controlar. Eu aspirava acompanhar com os olhos o crescimento de um arbusto, o surgimento de um jorro de água.
Joaquim: O amor comeu os meus remédios, minhas receitas médicas, minhas dietas. Comeu minhas aspirinas, minhas ondas-curtas, meus raio-x. Comeu meus testes mentais, meus exames de urina.
João: Esta é mesma Teresa que na noite passada conheci em toda intimidade? Posso dizer que a vi, falei-lhe, posso dizer que a tive em toda a intimidade? Que intimidade existe maior que a do sonho? A desse sonho que ainda trago em mim como um objeto que me passasse no bolso?
Raimundo: Maria não era um corpo vago, impreciso. Eu estava ciente de todos os detalhes de seu corpo, que poderia reconstituir à minha vontade. Sua boca, seu sorriso irregular. Todos esses detalhes não me seriam difíceis arrumá-los, recompondo-os, como um jogo de armar ou uma prancha anatômica.
Joaquim: O amor comeu na estante todos os meus livros de poesia. Comeu em meus livros de prosa as citações em verso. Comeu no dicionário as palavras que poderiam se juntar em versos.
João: Ainda me parece sentir o mar do sonho que inundou meu quarto. Ainda sinto a onda chegando à minha cama. Ainda me volta o espanto de despertar entre móveis e paredes que eu não compreendia pudessem estar enxutos. E sem nenhum sinal dessa água que o sol secou, mas de cujo contato ainda me sinto friorento e meio úmido (penso agora que seria mais justo, do mar do sonho, dizer que o sol afugentou, porque os sonhos são como as aves não apenas porque crescem e vivem no ar).
Raimundo: Maria era também, em certas tardes, o campo cimentado que eu atravessava para chegar em algum lugar. Sozinho sobre a terra e sob um sol que me poderia evaporar de toda nuvem.
Joaquim: Faminto o amor devorou os utensílios de meu uso: pente, navalha, escovas, tesouras de unhas, canivete. Faminto ainda, o amor devorou o uso de meus utensílios: meus banhos frios, a ópera cantada no banheiro, o aquecedor de água de fogo morto mas que parecia uma usina.
João: Teresa aqui está ao alcance de minha mão, de minha conversa. Por que, entretanto, me sinto sem direitos fora daquele mar? Ignorante dos gestos, das palavras?
Raimundo: Maria era também uma árvore. Um desses organismos sólidos e práticos, presos à terra com raízes que a exploram e devassam seus segredos. E ao mesmo tempo lançados para o céu, com quem permutam seus gazes, seus pássaros, seus movimentos.
Joaquim: O amor comeu as frutas postas sobre a mesa. Bebeu a água dos copos e das quartinhas. Comeu o pão de propósito escondido. Bebeu as lágrimas dos olhos que, ninguém o sabia, estavam cheios de água.
João: O sonho volta, me envolve novamente. A onda torna a bater em minha cadeira, ameaça chegar até a mesa. Penso que, no meio de toda esta gente da terra, gente que parece ter criado raízes, como um lavrador ou uma colina, sou o único a escutar esse mar. Talvez Teresa…
Raimundo: Maria também era a garrafa de aguardente. Aproximo o ouvido dessa forma correta e explorável e percebo o rumor e os movimentos de sonhos possíveis, ainda em sua matéria líquida, sonhos de que disporei, que submeterei a meu tempo e minha vontade, que alcançarei com a mão.
Joaquim: O amor voltou para comer os papéis onde irrefletidamente eu tornara a escrever meu nome.
João: Talvez Teresa…Sim, quem me dirá que esse oceano não nos é comum?
Raimundo: Maria era também o jornal. O mundo ainda quente, em sua última edição e mais recente.
Joaquim: O amor roeu minha infância, de dedos sujos de tinta, cabelos caindo nos olhos, botinas nunca engraxadas. O amor roeu o menino esquivo, sempre nos cantos, e que riscava os livros, mordia o lápis, andava na rua chutando pedras. Roeu as conversas, junto à bomba de gasolina do largo, com os primos que tudo sabiam sobre passarinhos, sobre uma mulher, sobre marcas de automóvel.
João: Posso esperar que esse oceano nos seja comum? Um sonho é uma criação minha, nascida de meu tempo adormecido, ou existe nele uma participação de fora, de todo o universo, de sua geografia, sua história, sua poesia?
Raimundo: Maria era também um livro: susto de que estamos certos, susto que praticar, com que fazer os exercícios que nos permitirão entender a voz de uma cadeira, de uma cômoda; susto cuidadosamente oculto, como qualquer animal venenoso, entre as folhas claras e organizadas dessa floresta enumerada que leva dísticos explicativos: poesia, poemas, versos.
Joaquim: O amor comeu meu estado e minha cidade. Drenou a água morta dos mangues, aboliu a maré. Comeu os mangues crespos e de folhas duras, comeu o verde ácido das plantas de cana cobrindo os morros regulares, cortados pelas barreiras vermelhas, pelo trenzindo preto, pelas chaminés. Comeu o cheiro de cana cortada e o cheiro de maresia. Comeu até essas coisas de que eu desesperava por não saber falar delas em verso.
João: O arbusto e a pedra aparecida em qualquer sonho podem ficar indiferentes à vida de que está participando? Pode ignorar o mundo que está ajudando a povoar? É possível que sintam essa participação esses fantasmas, nessa Teresa por exemplo, agora distraída e distante? Há algum sinal que a faça compreender termos sido, juntos, peixes de um mesmo mar?
Raimundo: Maria era também a folha em branco, barreira oposta ao rio impreciso que corre em regiões de alguma parte de nós mesmos. Nessa folha eu construirei um objeto sólido que depois imitarei, o qual depois me definirá. Penso para escolher: um poema, um desenho, um cimento armado — presenças duras e inalteráveis, oposta à minha fuga.
Joaquim: O amor comeu até os dias ainda não anunciados nas folhinhas. Comeu os minutos de um adiantamento de meu relógio, os anos que as linhas de minha mão me asseguram. Comeu o futuro grande atleta, comeu o futuro grande poeta. Comeu as futuras viagens em volta da terra, as futuras estantes em volta da sala.
João: Donde me veio a idéia de que Teresa talvez participe de um universo privado, fechado em minha lembrança? Desse mundo que, através de minha franqueza, compreendi ser o único onde me será possível cumprir os atos mais simples, como por exemplo, caminhar, beber um copo de água, escrever meu nome? Nada, nem mesmo Teresa.
Raimundo: Maria era também o sistema estabelecido de antemão, o fim onde chegar. Era a lucidez, que, ela só, nos pode dar um modo novo e completo de ver uma flor, de ler um verso.
Joaquim: O amor comeu minha paz e minha guerra. Meu dia e minha noite. Meu inverso e meu verão. Comeu meu silêncio, minha dor de cabeça, meu medo da morte.
“Os Três Mal-Amados”, João Cabral de Meto Neto (1943).
João: Olho Teresa. Veja-a sentada aqui a meu lado, a poucos centímetros de mim. A poucos centímetros, muitos quilômetros. Por que essa impressão de que precisaria de quilômetros para medir a distância, o afastamento em que a vejo neste momento?
Raimundo: Maria era a praia que eu frequentava certas manhãs. Meus gestos indispensáveis que se cumpriam a um ar tão absolutamente livre que ele mesmo determina seus limites, meus gestos simplificados diante de extensões de que uma luz geral aboliu todos os segredos.
Joaquim: O amor comeu o meu nome, minha identidade, meu retrato. O amor comeu a minha certidão de idade, minha genealogia, meu endereço. O amor comeu meus cartões de visita. O amor veio e comeu todos os papéis onde eu escrevera meu nome.
João: Olho Teresa como se olhasse o retrato de uma antepassada que tivesse vivido em outro século. Ou como se olhasse um vulto em outro continente, através de um telescópio. Vejo-a como se a cobrisse a poeira tenuíssima ou o ar quase azul que envolvem as pessoas afastadas de nós muitos anos ou muitas léguas.
Raimundo: Maria era sempre uma praia, lugar onde me sinto exato e nítido como uma pedra – meu particular, minha fuga, meu excesso imediatamente evaporados. Maria era o mar dessa praia, sem mistério e sem profundeza. Elementar, como as coisas que podem ser mudadas em vapor ou poeira.
Joaquim: O amor comeu minhas roupas, meus lençóis, minhas camisas. O amor comeu metros e metros de gravatas. O amor comeu a medida de meus ternos, o número de meus sapatos, o tamanho de meus chapéus. O amor comeu minha altura, meu peso, a cor de meus olhos e de meus cabelos.
João: Posso dizer dessa moça a meu lado que é a mesma Teresa que durante todo o dia de hoje, por efeito do gás do sonho, senti pegada a mim?
Raimundo: Maria era também uma fonte. O líquido que começaria a jorrar num momento que eu previa, num ponto que eu poderia examinar, em circunstâncias que eu poderia controlar. Eu aspirava acompanhar com os olhos o crescimento de um arbusto, o surgimento de um jorro de água.
Joaquim: O amor comeu os meus remédios, minhas receitas médicas, minhas dietas. Comeu minhas aspirinas, minhas ondas-curtas, meus raio-x. Comeu meus testes mentais, meus exames de urina.
João: Esta é mesma Teresa que na noite passada conheci em toda intimidade? Posso dizer que a vi, falei-lhe, posso dizer que a tive em toda a intimidade? Que intimidade existe maior que a do sonho? A desse sonho que ainda trago em mim como um objeto que me passasse no bolso?
Raimundo: Maria não era um corpo vago, impreciso. Eu estava ciente de todos os detalhes de seu corpo, que poderia reconstituir à minha vontade. Sua boca, seu sorriso irregular. Todos esses detalhes não me seriam difíceis arrumá-los, recompondo-os, como um jogo de armar ou uma prancha anatômica.
Joaquim: O amor comeu na estante todos os meus livros de poesia. Comeu em meus livros de prosa as citações em verso. Comeu no dicionário as palavras que poderiam se juntar em versos.
João: Ainda me parece sentir o mar do sonho que inundou meu quarto. Ainda sinto a onda chegando à minha cama. Ainda me volta o espanto de despertar entre móveis e paredes que eu não compreendia pudessem estar enxutos. E sem nenhum sinal dessa água que o sol secou, mas de cujo contato ainda me sinto friorento e meio úmido (penso agora que seria mais justo, do mar do sonho, dizer que o sol afugentou, porque os sonhos são como as aves não apenas porque crescem e vivem no ar).
Raimundo: Maria era também, em certas tardes, o campo cimentado que eu atravessava para chegar em algum lugar. Sozinho sobre a terra e sob um sol que me poderia evaporar de toda nuvem.
Joaquim: Faminto o amor devorou os utensílios de meu uso: pente, navalha, escovas, tesouras de unhas, canivete. Faminto ainda, o amor devorou o uso de meus utensílios: meus banhos frios, a ópera cantada no banheiro, o aquecedor de água de fogo morto mas que parecia uma usina.
João: Teresa aqui está ao alcance de minha mão, de minha conversa. Por que, entretanto, me sinto sem direitos fora daquele mar? Ignorante dos gestos, das palavras?
Raimundo: Maria era também uma árvore. Um desses organismos sólidos e práticos, presos à terra com raízes que a exploram e devassam seus segredos. E ao mesmo tempo lançados para o céu, com quem permutam seus gazes, seus pássaros, seus movimentos.
Joaquim: O amor comeu as frutas postas sobre a mesa. Bebeu a água dos copos e das quartinhas. Comeu o pão de propósito escondido. Bebeu as lágrimas dos olhos que, ninguém o sabia, estavam cheios de água.
João: O sonho volta, me envolve novamente. A onda torna a bater em minha cadeira, ameaça chegar até a mesa. Penso que, no meio de toda esta gente da terra, gente que parece ter criado raízes, como um lavrador ou uma colina, sou o único a escutar esse mar. Talvez Teresa…
Raimundo: Maria também era a garrafa de aguardente. Aproximo o ouvido dessa forma correta e explorável e percebo o rumor e os movimentos de sonhos possíveis, ainda em sua matéria líquida, sonhos de que disporei, que submeterei a meu tempo e minha vontade, que alcançarei com a mão.
Joaquim: O amor voltou para comer os papéis onde irrefletidamente eu tornara a escrever meu nome.
João: Talvez Teresa…Sim, quem me dirá que esse oceano não nos é comum?
Raimundo: Maria era também o jornal. O mundo ainda quente, em sua última edição e mais recente.
Joaquim: O amor roeu minha infância, de dedos sujos de tinta, cabelos caindo nos olhos, botinas nunca engraxadas. O amor roeu o menino esquivo, sempre nos cantos, e que riscava os livros, mordia o lápis, andava na rua chutando pedras. Roeu as conversas, junto à bomba de gasolina do largo, com os primos que tudo sabiam sobre passarinhos, sobre uma mulher, sobre marcas de automóvel.
João: Posso esperar que esse oceano nos seja comum? Um sonho é uma criação minha, nascida de meu tempo adormecido, ou existe nele uma participação de fora, de todo o universo, de sua geografia, sua história, sua poesia?
Raimundo: Maria era também um livro: susto de que estamos certos, susto que praticar, com que fazer os exercícios que nos permitirão entender a voz de uma cadeira, de uma cômoda; susto cuidadosamente oculto, como qualquer animal venenoso, entre as folhas claras e organizadas dessa floresta enumerada que leva dísticos explicativos: poesia, poemas, versos.
Joaquim: O amor comeu meu estado e minha cidade. Drenou a água morta dos mangues, aboliu a maré. Comeu os mangues crespos e de folhas duras, comeu o verde ácido das plantas de cana cobrindo os morros regulares, cortados pelas barreiras vermelhas, pelo trenzindo preto, pelas chaminés. Comeu o cheiro de cana cortada e o cheiro de maresia. Comeu até essas coisas de que eu desesperava por não saber falar delas em verso.
João: O arbusto e a pedra aparecida em qualquer sonho podem ficar indiferentes à vida de que está participando? Pode ignorar o mundo que está ajudando a povoar? É possível que sintam essa participação esses fantasmas, nessa Teresa por exemplo, agora distraída e distante? Há algum sinal que a faça compreender termos sido, juntos, peixes de um mesmo mar?
Raimundo: Maria era também a folha em branco, barreira oposta ao rio impreciso que corre em regiões de alguma parte de nós mesmos. Nessa folha eu construirei um objeto sólido que depois imitarei, o qual depois me definirá. Penso para escolher: um poema, um desenho, um cimento armado — presenças duras e inalteráveis, oposta à minha fuga.
Joaquim: O amor comeu até os dias ainda não anunciados nas folhinhas. Comeu os minutos de um adiantamento de meu relógio, os anos que as linhas de minha mão me asseguram. Comeu o futuro grande atleta, comeu o futuro grande poeta. Comeu as futuras viagens em volta da terra, as futuras estantes em volta da sala.
João: Donde me veio a idéia de que Teresa talvez participe de um universo privado, fechado em minha lembrança? Desse mundo que, através de minha franqueza, compreendi ser o único onde me será possível cumprir os atos mais simples, como por exemplo, caminhar, beber um copo de água, escrever meu nome? Nada, nem mesmo Teresa.
Raimundo: Maria era também o sistema estabelecido de antemão, o fim onde chegar. Era a lucidez, que, ela só, nos pode dar um modo novo e completo de ver uma flor, de ler um verso.
Joaquim: O amor comeu minha paz e minha guerra. Meu dia e minha noite. Meu inverso e meu verão. Comeu meu silêncio, minha dor de cabeça, meu medo da morte.
Tradução italiana de “Os Três Mal-Amados”, João Cabral de Meto Neto (1943).
Mal d’amore
Il titolo originale di questa piccolo monologo a tre voci è “Os três mal-amados” (1943), letteralmente i tre malamati, ma tradotto col titolo Mal d’amore. João Cabral de Melo Neto (1920-1999) lo ha scritto ispirandosi ad una poesia de Carlos Drummond De Andrade (1902-1987), il cui titolo è Quadrilha (1930) in italiano Quadriglia, i gruppi di quattro persone che eseguono balli popolari, mutando costantemente il partner attraverso uno scambio di posizioni .
A seguire un piccolo estratto di Quadrilha per poter entrare nello spirito di Mal d’amore.
João amava Teresa che amava Raimundo
che amava Maria che amava Joaquim
che amava Lili…
João: Guardo Teresa. È seduta qui accanto a me, a pochi centimetri. A pochi centimetri, molti chilometri. Perché questa sensazione che mi servirebbero chilometri per misurare la distanza, la lontananza in cui la vedo in questo momento?
Raimundo: Maria era la spiaggia dove andavo alcune mattine. I miei gesti inevitabili, compiuti all’aria aperta, così aperta che essa stessa ne definiva i confini. I miei gesti semplificati innanzi a estensioni i cui segreti erano stati aboliti da una luce diffusa.
Joaquim: L’amore ha divorato il mio nome, la mia identità, la mia foto. L’amore ha divorato la mia carta d’identità, la mia genealogia, il mio indirizzo. L’amore ha divorato i miei biglietti da visita. L’amore è arrivato e ha divorato tutti i fogli su cui avevo scritto il mio nome.
João: Guardo Teresa come se guardassi il ritratto di un’antenata vissuta in un altro secolo. O come se guardassi un volto in un altro continente, attraverso un telescopio. La vedo come se fosse ricoperta da una polvere leggerissima o da un’aria azzurrognola che avvolge le persone distanti da noi molti anni o molte leghe.
Raimundo: Maria è sempre stata una spiaggia, il posto dove mi sento esatto e nitido come una pietra — un dettaglio, una fuga, un eccesso subito evaporati. Maria era il mare di questa spiaggia, senza mistero, né profondità. Elementare, come le cose che possono mutare in vapore o polvere.
Joaquim: L’amore ha divorato i miei vestiti, i fazzoletti al taschino, le mie camicie. L’amore ha divorato metri e metri di cravatte. L’amore ha divorato la taglia dei miei vestiti, il numero delle mie scarpe, la circonferenza dei miei cappelli. L’amore ha divorato la mia altezza, il mio peso, il colore dei miei occhi e i miei capelli.
João: Posso dire che questa ragazza accanto a me è la stessa Teresa che per tutto il giorno, per effetto del gas dei sogni, ho sentito attaccata a me?
Raimundo: Maria era anche una fontana. Il liquido che sarebbe cominciato a zampillare in un momento che potevo prevedere, in un punto che avrei potuto esaminare, in circostanze che avrei potuto controllare. Aspiravo ad accompagnare con gli occhi la crescita di un arbusto, il sorgere di uno zampillo di acqua.
Joaquim: L’amore ha divorato le mie medicine, le mie ricette mediche, le mie diete. Ha divorato le mie aspirine, il mio elettrocardiogramma, le mie radiografie. Ha divorato il mio elettroencefalogramma, gli esami delle mie urine.
João: Questa è la stessa Teresa che la scorsa notte ho conosciuto in tutta la sua intimità? Posso dire di averla vista, di averle parlato, posso dire di averla avuta in tutta la sua intimità? Quale intimità più grande, se non quella del sogno? Quel sogno che porto ancora dentro di me come se avessi un oggetto pesante in tasca?
Raimundo: Maria non era un corpo indefinito, impreciso. Ne conoscevo tutti i dettagli. Avrei potuto ricostruirlo ogni volta che lo volevo. La sua bocca, il suo sorriso irregolare. Non mi sarebbe stato difficile riordinare tutti questi dettagli, ricomporla come in un gioco di costruzioni o una scheda di anatomia.
Joaquim: L’amore ha divorato tutti i miei libri di poesia sullo scaffale. Ha divorato i miei libri di prosa, le citazioni in versi. Ha divorato nel dizionario le parole che avrebbero potuto unirsi in versi.
João: Mi sembra di sentire ancora il mare del sogno che ha inondato la mia stanza. Sento ancora l’onda arrivare al mio letto. Mi ritorna ancora lo spavento di svegliarmi tra mobili e pareti che non capivo come mai potessero essere rimasti asciutti. E senza nessun segnale di quell’acqua che il sole aveva asciugato, ma al cui contatto ancora mi sento infreddolito e mezzo umido (adesso penso che sarebbe più giusto, del mare del sogno, dire che il sole lo ha messo in fuga, perché i sogni sono come gli uccelli non solo perché crescono e vivono nell’aria).
Raimundo: Maria era anche, certi pomeriggi, un campo ricoperto di cemento che attraversavo per arrivare da qualche parte. Solo sulla terra e sotto un sole che mi avrebbe fatto evaporare da qualsiasi nuvola.
Joaquim: Vorace, l’amore ha divorato gli utensili che usavo: pettine, rasoio, spazzole, forbici, coltellino svizzero. Con ancora più voracia, l’amore ha divorato l’uso dei miei utensili: le mie docce fredde, l’opera cantata in bagno, lo scaldabagno dell’acqua ormai in disuso, ma che ancora sembrava la caldaia di una fabbrica.
João: Teresa è qui, a portata di mano, del mio parlare. Perché, intanto, mi sento senza nessun diritto fuori da quel mare? Ignorante di gesti, di parole?
Raimundo: Maria era anche un albero. Uno di quegli organismi solidi e pratici attaccati alla terra con le radici che la esplorano e ne invadono i segreti. E allo stesso tempo lanciati verso il cielo, con cui scambia i suoi gas, i suoi uccelli, i suoi movimenti.
Joaquim: L’amore ha divorato la frutta sul tavolo. Ha bevuto l’acqua dai bicchieri e dalle brocche. Ha divorato il pane, nascosto di proposito. Ha bevuto le lacrime degli occhi che, nessuno lo sapeva, erano gonfi d’acqua.
João: Il sogno ritorna, mi coinvolge di nuovo. L’onda torna a sbattere contro la sedia, minaccia di arrivare al tavolo. Penso che, in mezzo a tutta questa gente di terra, gente che sembra aver creato radici, come un contadino o una collina, sono l’unico a sentire questo mare. Chissà Teresa…
Raimundo: Maria era anche una bottiglia di grappa. Avvicino l’orecchio a questa forma perfetta ed esplorabile, ne percepisco il rumore, i movimenti di sogni possibili. Percepisco, ancora, nella sua materia liquida, sogni che metterò in ordine, sottometterò al mio tempo e alla mia volontà, sogni che toccherò con le mani.
Joaquim: L’amore è tornato per divorare i fogli dove automaticamente avevo ricominciato a scrivere il mio nome.
Joao: Chissà Teresa… Sì, chi mi dirà che questo oceano non ci è comune?
Raimundo: Maria era anche un giornale. Il mondo ancora caldo, nella sua ultima e più recente edizione.
Joaquim: L’amore ha rosicchiato la mia infanzia, di dita sporche di pittura, di frangia sugli occhi, di stivaletti mai lucidati. L’amore ha rosicchiato il bambino schivo, sempre in un angolo e che scriveva sui libri, mordeva le matite, andava per strada dando calci alle pietre. Ha rosicchiato i discorsi fatti alla pompa di benzina della piazzetta con i cugini che sapevano tutto di passeri, donne e automobili.
João: Posso sperare che questo oceano ci sia comune? Un sogno è una mia creazione nata dal mio tempo dormiente o esiste in esso una qualche partecipazione esterna, di tutto l’universo, della sua geografia, della sua storia, della sua poesia?
Raimundo: Maria era anche un libro di terrore: un terrore di cui abbiamo la certezza, un terrore da praticare, con cui esercitarsi per poter sentire la voce di una sedia, di una cassettiera; terrore nascosto con attenzione, come un qualsiasi animale velenoso tra foglie chiare e organizzate di una foresta numerata che porta distici esplicativi: poesia, poesie, versi.
Joaquim: L’amore ha divorato il mio stato e la mia città. Ha drenato l’acqua morta delle rive limacciose, ha abolito la marea. Ha divorato le piante crespe dalle foglie dure degli stagni salmastri, ha divorato il verde acido delle piante di canna che coprono le colline regolari tagliate dalle barriere rosse, dal trenino nero, dai focolari. Ha divorato l’odore della canna tagliata e l’odore della brezza di mare. Ha persino divorato cose non mi immaginavo perché non sapevo parlar d’esse in versi.
João: L’arbusto o la pietra apparsi in un sogno qualsiasi possono rimanere indifferenti alla vita della quale sono partecipi? Possono ignorare il mondo che pure contribuiscono a popolare? È possibile che sentano questa partecipazione, questi fantasmi, in questa Teresa, ad esempio, ora distratta e distante? Esiste un qualche segnale che le faccia comprendere che siamo stati, insieme, pesci di uno stesso mare?
Raimundo: Maria era anche un foglio bianco, barriera opposta al fiume impreciso che scorre in alcune regioni da qualche parte dentro di noi. In questo foglio costruirò un oggetto solido che in seguito imiterò, e che poi mi definirà. Penso di scegliere: una poesia, un disegno, del cemento armato — presenze dure e immutabili, opposte alla mia fuga.
Joaquim: L’amore ha divorato i giorni non ancora annunciati dal calendario. Ha divorato i minuti di un anticipo del mio orologio, gli anni che le linee della mia mano mi avevano assicurato. Ha divorato il futuro grande atleta, il futuro grande poeta. Ha divorato i futuri viaggi attorno al mondo, i futuri scaffali attorno al soggiorno.
João: Da dove mi è saltata fuori l’idea che Teresa possa sentirsi partecipe di un universo privato, chiuso nei miei ricordi? Di questo mondo che, attraverso la mia franchezza, ho capito essere l’unico dove mi sarà possibile compiere gli atti più semplici, come ad esempio, camminare, bere un bicchier d’acqua, scrivere il mio nome? Niente, nemmeno la stessa Teresa.
Raimundo: Maria era anche il sistema fissato in antecedenza, fine ultimo cui arrivare. Era quella lucidità, che, lei sola, può darci un modo nuovo e completo di vedere un fiore, di leggere un verso.
Joaquim: L’amore ha divorato la mia pace e la mia guerra. Il mio giorno e la mia notte. Il mio inverno e la mia estate. Ha divorato il mio silenzio, il mio mal di testa, la mia paura della morte.
Nota: Nella versione originale lo scrittore usa il verbo comer, roer e devorar per indicare l’azione compiuta dall’amore nelle battute di Joaquim. Sono tutti verbi legati all’uso della bocca e dei denti per l’ingestione di cibi. Il verbo roer, in relazione agli esseri umani è legato all’idea di mangiare le unghie, e in relazione agli animali, al rodere dei roditori. Nella versione tradotta ho dovuto venir meno alla gradazione di intensità di questi verbi, visto che comer, che potrebbe essere tradotto con un normalissimo mangiare, in portoghese può essere usato con un intensità più forte, tanto da indicare anche la consumazione di una relazione sessuale. In questo testo tradurre l’amore ha mangiato (…) avrebbe fatto perdere buona parte della forza semantica propria della parola portoghese. Ho optato, pertanto, per l’eleiminazione della gradazione tra comer e devorar per non perdere la potenza semantica del verbo più usato nelle battute di Joaquim. Quanto al verbo roer, sebbene prossimo alla parola unghie con una chiara allusione all’idea di mangiare le unghie, si è preferito mantenerlo con la traduzione di rodere, per poter mantenere una gradazione semantica che non fosse al ribasso dopo divorare, visto che già si era persa la gradazione anteriore tra comer e devorar. Oltretutto il verbo rodere trasmette l’idea di logoramento che credo sia il proposito dell’autore. Quanto alle altre scelte traduttive, non mi sembra necessario spiegarle, un buon traduttore concorderà o discorderà e un buon lettore apprezzerà.
Tradução italiana de “Os Três Mal-Amados”, João Cabral de Meto Neto (1943).
Mal d’amore
Il titolo originale di questa piccolo monologo a tre voci è “Os três mal-amados” (1943), letteralmente i tre malamati, ma tradotto col titolo Mal d’amore. João Cabral de Melo Neto (1920-1999) lo ha scritto ispirandosi ad una poesia de Carlos Drummond De Andrade (1902-1987), il cui titolo è Quadrilha (1930) in italiano Quadriglia, i gruppi di quattro persone che eseguono balli popolari, mutando costantemente il partner attraverso uno scambio di posizioni .
A seguire un piccolo estratto di Quadrilha per poter entrare nello spirito di Mal d’amore.
João amava Teresa che amava Raimundo
che amava Maria che amava Joaquim
che amava Lili…
João: Guardo Teresa. È seduta qui accanto a me, a pochi centimetri. A pochi centimetri, molti chilometri. Perché questa sensazione che mi servirebbero chilometri per misurare la distanza, la lontananza in cui la vedo in questo momento?
Raimundo: Maria era la spiaggia dove andavo alcune mattine. I miei gesti inevitabili, compiuti all’aria aperta, così aperta che essa stessa ne definiva i confini. I miei gesti semplificati innanzi a estensioni i cui segreti erano stati aboliti da una luce diffusa.
Joaquim: L’amore ha divorato il mio nome, la mia identità, la mia foto. L’amore ha divorato la mia carta d’identità, la mia genealogia, il mio indirizzo. L’amore ha divorato i miei biglietti da visita. L’amore è arrivato e ha divorato tutti i fogli su cui avevo scritto il mio nome.
João: Guardo Teresa come se guardassi il ritratto di un’antenata vissuta in un altro secolo. O come se guardassi un volto in un altro continente, attraverso un telescopio. La vedo come se fosse ricoperta da una polvere leggerissima o da un’aria azzurrognola che avvolge le persone distanti da noi molti anni o molte leghe.
Raimundo: Maria è sempre stata una spiaggia, il posto dove mi sento esatto e nitido come una pietra — un dettaglio, una fuga, un eccesso subito evaporati. Maria era il mare di questa spiaggia, senza mistero, né profondità. Elementare, come le cose che possono mutare in vapore o polvere.
Joaquim: L’amore ha divorato i miei vestiti, i fazzoletti al taschino, le mie camicie. L’amore ha divorato metri e metri di cravatte. L’amore ha divorato la taglia dei miei vestiti, il numero delle mie scarpe, la circonferenza dei miei cappelli. L’amore ha divorato la mia altezza, il mio peso, il colore dei miei occhi e i miei capelli.
João: Posso dire che questa ragazza accanto a me è la stessa Teresa che per tutto il giorno, per effetto del gas dei sogni, ho sentito attaccata a me?
Raimundo: Maria era anche una fontana. Il liquido che sarebbe cominciato a zampillare in un momento che potevo prevedere, in un punto che avrei potuto esaminare, in circostanze che avrei potuto controllare. Aspiravo ad accompagnare con gli occhi la crescita di un arbusto, il sorgere di uno zampillo di acqua.
Joaquim: L’amore ha divorato le mie medicine, le mie ricette mediche, le mie diete. Ha divorato le mie aspirine, il mio elettrocardiogramma, le mie radiografie. Ha divorato il mio elettroencefalogramma, gli esami delle mie urine.
João: Questa è la stessa Teresa che la scorsa notte ho conosciuto in tutta la sua intimità? Posso dire di averla vista, di averle parlato, posso dire di averla avuta in tutta la sua intimità? Quale intimità più grande, se non quella del sogno? Quel sogno che porto ancora dentro di me come se avessi un oggetto pesante in tasca?
Raimundo: Maria non era un corpo indefinito, impreciso. Ne conoscevo tutti i dettagli. Avrei potuto ricostruirlo ogni volta che lo volevo. La sua bocca, il suo sorriso irregolare. Non mi sarebbe stato difficile riordinare tutti questi dettagli, ricomporla come in un gioco di costruzioni o una scheda di anatomia.
Joaquim: L’amore ha divorato tutti i miei libri di poesia sullo scaffale. Ha divorato i miei libri di prosa, le citazioni in versi. Ha divorato nel dizionario le parole che avrebbero potuto unirsi in versi.
João: Mi sembra di sentire ancora il mare del sogno che ha inondato la mia stanza. Sento ancora l’onda arrivare al mio letto. Mi ritorna ancora lo spavento di svegliarmi tra mobili e pareti che non capivo come mai potessero essere rimasti asciutti. E senza nessun segnale di quell’acqua che il sole aveva asciugato, ma al cui contatto ancora mi sento infreddolito e mezzo umido (adesso penso che sarebbe più giusto, del mare del sogno, dire che il sole lo ha messo in fuga, perché i sogni sono come gli uccelli non solo perché crescono e vivono nell’aria).
Raimundo: Maria era anche, certi pomeriggi, un campo ricoperto di cemento che attraversavo per arrivare da qualche parte. Solo sulla terra e sotto un sole che mi avrebbe fatto evaporare da qualsiasi nuvola.
Joaquim: Vorace, l’amore ha divorato gli utensili che usavo: pettine, rasoio, spazzole, forbici, coltellino svizzero. Con ancora più voracia, l’amore ha divorato l’uso dei miei utensili: le mie docce fredde, l’opera cantata in bagno, lo scaldabagno dell’acqua ormai in disuso, ma che ancora sembrava la caldaia di una fabbrica.
João: Teresa è qui, a portata di mano, del mio parlare. Perché, intanto, mi sento senza nessun diritto fuori da quel mare? Ignorante di gesti, di parole?
Raimundo: Maria era anche un albero. Uno di quegli organismi solidi e pratici attaccati alla terra con le radici che la esplorano e ne invadono i segreti. E allo stesso tempo lanciati verso il cielo, con cui scambia i suoi gas, i suoi uccelli, i suoi movimenti.
Joaquim: L’amore ha divorato la frutta sul tavolo. Ha bevuto l’acqua dai bicchieri e dalle brocche. Ha divorato il pane, nascosto di proposito. Ha bevuto le lacrime degli occhi che, nessuno lo sapeva, erano gonfi d’acqua.
João: Il sogno ritorna, mi coinvolge di nuovo. L’onda torna a sbattere contro la sedia, minaccia di arrivare al tavolo. Penso che, in mezzo a tutta questa gente di terra, gente che sembra aver creato radici, come un contadino o una collina, sono l’unico a sentire questo mare. Chissà Teresa…
Raimundo: Maria era anche una bottiglia di grappa. Avvicino l’orecchio a questa forma perfetta ed esplorabile, ne percepisco il rumore, i movimenti di sogni possibili. Percepisco, ancora, nella sua materia liquida, sogni che metterò in ordine, sottometterò al mio tempo e alla mia volontà, sogni che toccherò con le mani.
Joaquim: L’amore è tornato per divorare i fogli dove automaticamente avevo ricominciato a scrivere il mio nome.
Joao: Chissà Teresa… Sì, chi mi dirà che questo oceano non ci è comune?
Raimundo: Maria era anche un giornale. Il mondo ancora caldo, nella sua ultima e più recente edizione.
Joaquim: L’amore ha rosicchiato la mia infanzia, di dita sporche di pittura, di frangia sugli occhi, di stivaletti mai lucidati. L’amore ha rosicchiato il bambino schivo, sempre in un angolo e che scriveva sui libri, mordeva le matite, andava per strada dando calci alle pietre. Ha rosicchiato i discorsi fatti alla pompa di benzina della piazzetta con i cugini che sapevano tutto di passeri, donne e automobili.
João: Posso sperare che questo oceano ci sia comune? Un sogno è una mia creazione nata dal mio tempo dormiente o esiste in esso una qualche partecipazione esterna, di tutto l’universo, della sua geografia, della sua storia, della sua poesia?
Raimundo: Maria era anche un libro di terrore: un terrore di cui abbiamo la certezza, un terrore da praticare, con cui esercitarsi per poter sentire la voce di una sedia, di una cassettiera; terrore nascosto con attenzione, come un qualsiasi animale velenoso tra foglie chiare e organizzate di una foresta numerata che porta distici esplicativi: poesia, poesie, versi.
Joaquim: L’amore ha divorato il mio stato e la mia città. Ha drenato l’acqua morta delle rive limacciose, ha abolito la marea. Ha divorato le piante crespe dalle foglie dure degli stagni salmastri, ha divorato il verde acido delle piante di canna che coprono le colline regolari tagliate dalle barriere rosse, dal trenino nero, dai focolari. Ha divorato l’odore della canna tagliata e l’odore della brezza di mare. Ha persino divorato cose non mi immaginavo perché non sapevo parlar d’esse in versi.
João: L’arbusto o la pietra apparsi in un sogno qualsiasi possono rimanere indifferenti alla vita della quale sono partecipi? Possono ignorare il mondo che pure contribuiscono a popolare? È possibile che sentano questa partecipazione, questi fantasmi, in questa Teresa, ad esempio, ora distratta e distante? Esiste un qualche segnale che le faccia comprendere che siamo stati, insieme, pesci di uno stesso mare?
Raimundo: Maria era anche un foglio bianco, barriera opposta al fiume impreciso che scorre in alcune regioni da qualche parte dentro di noi. In questo foglio costruirò un oggetto solido che in seguito imiterò, e che poi mi definirà. Penso di scegliere: una poesia, un disegno, del cemento armato — presenze dure e immutabili, opposte alla mia fuga.
Joaquim: L’amore ha divorato i giorni non ancora annunciati dal calendario. Ha divorato i minuti di un anticipo del mio orologio, gli anni che le linee della mia mano mi avevano assicurato. Ha divorato il futuro grande atleta, il futuro grande poeta. Ha divorato i futuri viaggi attorno al mondo, i futuri scaffali attorno al soggiorno.
João: Da dove mi è saltata fuori l’idea che Teresa possa sentirsi partecipe di un universo privato, chiuso nei miei ricordi? Di questo mondo che, attraverso la mia franchezza, ho capito essere l’unico dove mi sarà possibile compiere gli atti più semplici, come ad esempio, camminare, bere un bicchier d’acqua, scrivere il mio nome? Niente, nemmeno la stessa Teresa.
Raimundo: Maria era anche il sistema fissato in antecedenza, fine ultimo cui arrivare. Era quella lucidità, che, lei sola, può darci un modo nuovo e completo di vedere un fiore, di leggere un verso.
Joaquim: L’amore ha divorato la mia pace e la mia guerra. Il mio giorno e la mia notte. Il mio inverno e la mia estate. Ha divorato il mio silenzio, il mio mal di testa, la mia paura della morte.
Nota: Nella versione originale lo scrittore usa il verbo comer, roer e devorar per indicare l’azione compiuta dall’amore nelle battute di Joaquim. Sono tutti verbi legati all’uso della bocca e dei denti per l’ingestione di cibi. Il verbo roer, in relazione agli esseri umani è legato all’idea di mangiare le unghie, e in relazione agli animali, al rodere dei roditori. Nella versione tradotta ho dovuto venir meno alla gradazione di intensità di questi verbi, visto che comer, che potrebbe essere tradotto con un normalissimo mangiare, in portoghese può essere usato con un intensità più forte, tanto da indicare anche la consumazione di una relazione sessuale. In questo testo tradurre l’amore ha mangiato (…) avrebbe fatto perdere buona parte della forza semantica propria della parola portoghese. Ho optato, pertanto, per l’eleiminazione della gradazione tra comer e devorar per non perdere la potenza semantica del verbo più usato nelle battute di Joaquim. Quanto al verbo roer, sebbene prossimo alla parola unghie con una chiara allusione all’idea di mangiare le unghie, si è preferito mantenerlo con la traduzione di rodere, per poter mantenere una gradazione semantica che non fosse al ribasso dopo divorare, visto che già si era persa la gradazione anteriore tra comer e devorar. Oltretutto il verbo rodere trasmette l’idea di logoramento che credo sia il proposito dell’autore. Quanto alle altre scelte traduttive, non mi sembra necessario spiegarle, un buon traduttore concorderà o discorderà e un buon lettore apprezzerà.
“Os Três Mal-Amados”, João Cabral de Meto Neto (1943).
João: Olho Teresa. Veja-a sentada aqui a meu lado, a poucos centímetros de mim. A poucos centímetros, muitos quilômetros. Por que essa impressão de que precisaria de quilômetros para medir a distância, o afastamento em que a vejo neste momento?
Raimundo: Maria era a praia que eu frequentava certas manhãs. Meus gestos indispensáveis que se cumpriam a um ar tão absolutamente livre que ele mesmo determina seus limites, meus gestos simplificados diante de extensões de que uma luz geral aboliu todos os segredos.
Joaquim: O amor comeu o meu nome, minha identidade, meu retrato. O amor comeu a minha certidão de idade, minha genealogia, meu endereço. O amor comeu meus cartões de visita. O amor veio e comeu todos os papéis onde eu escrevera meu nome.
João: Olho Teresa como se olhasse o retrato de uma antepassada que tivesse vivido em outro século. Ou como se olhasse um vulto em outro continente, através de um telescópio. Vejo-a como se a cobrisse a poeira tenuíssima ou o ar quase azul que envolvem as pessoas afastadas de nós muitos anos ou muitas léguas.
Raimundo: Maria era sempre uma praia, lugar onde me sinto exato e nítido como uma pedra – meu particular, minha fuga, meu excesso imediatamente evaporados. Maria era o mar dessa praia, sem mistério e sem profundeza. Elementar, como as coisas que podem ser mudadas em vapor ou poeira.
Joaquim: O amor comeu minhas roupas, meus lençóis, minhas camisas. O amor comeu metros e metros de gravatas. O amor comeu a medida de meus ternos, o número de meus sapatos, o tamanho de meus chapéus. O amor comeu minha altura, meu peso, a cor de meus olhos e de meus cabelos.
João: Posso dizer dessa moça a meu lado que é a mesma Teresa que durante todo o dia de hoje, por efeito do gás do sonho, senti pegada a mim?
Raimundo: Maria era também uma fonte. O líquido que começaria a jorrar num momento que eu previa, num ponto que eu poderia examinar, em circunstâncias que eu poderia controlar. Eu aspirava acompanhar com os olhos o crescimento de um arbusto, o surgimento de um jorro de água.
Joaquim: O amor comeu os meus remédios, minhas receitas médicas, minhas dietas. Comeu minhas aspirinas, minhas ondas-curtas, meus raio-x. Comeu meus testes mentais, meus exames de urina.
João: Esta é mesma Teresa que na noite passada conheci em toda intimidade? Posso dizer que a vi, falei-lhe, posso dizer que a tive em toda a intimidade? Que intimidade existe maior que a do sonho? A desse sonho que ainda trago em mim como um objeto que me passasse no bolso?
Raimundo: Maria não era um corpo vago, impreciso. Eu estava ciente de todos os detalhes de seu corpo, que poderia reconstituir à minha vontade. Sua boca, seu sorriso irregular. Todos esses detalhes não me seriam difíceis arrumá-los, recompondo-os, como um jogo de armar ou uma prancha anatômica.
Joaquim: O amor comeu na estante todos os meus livros de poesia. Comeu em meus livros de prosa as citações em verso. Comeu no dicionário as palavras que poderiam se juntar em versos.
João: Ainda me parece sentir o mar do sonho que inundou meu quarto. Ainda sinto a onda chegando à minha cama. Ainda me volta o espanto de despertar entre móveis e paredes que eu não compreendia pudessem estar enxutos. E sem nenhum sinal dessa água que o sol secou, mas de cujo contato ainda me sinto friorento e meio úmido (penso agora que seria mais justo, do mar do sonho, dizer que o sol afugentou, porque os sonhos são como as aves não apenas porque crescem e vivem no ar).
Raimundo: Maria era também, em certas tardes, o campo cimentado que eu atravessava para chegar em algum lugar. Sozinho sobre a terra e sob um sol que me poderia evaporar de toda nuvem.
Joaquim: Faminto o amor devorou os utensílios de meu uso: pente, navalha, escovas, tesouras de unhas, canivete. Faminto ainda, o amor devorou o uso de meus utensílios: meus banhos frios, a ópera cantada no banheiro, o aquecedor de água de fogo morto mas que parecia uma usina.
João: Teresa aqui está ao alcance de minha mão, de minha conversa. Por que, entretanto, me sinto sem direitos fora daquele mar? Ignorante dos gestos, das palavras?
Raimundo: Maria era também uma árvore. Um desses organismos sólidos e práticos, presos à terra com raízes que a exploram e devassam seus segredos. E ao mesmo tempo lançados para o céu, com quem permutam seus gazes, seus pássaros, seus movimentos.
Joaquim: O amor comeu as frutas postas sobre a mesa. Bebeu a água dos copos e das quartinhas. Comeu o pão de propósito escondido. Bebeu as lágrimas dos olhos que, ninguém o sabia, estavam cheios de água.
João: O sonho volta, me envolve novamente. A onda torna a bater em minha cadeira, ameaça chegar até a mesa. Penso que, no meio de toda esta gente da terra, gente que parece ter criado raízes, como um lavrador ou uma colina, sou o único a escutar esse mar. Talvez Teresa…
Raimundo: Maria também era a garrafa de aguardente. Aproximo o ouvido dessa forma correta e explorável e percebo o rumor e os movimentos de sonhos possíveis, ainda em sua matéria líquida, sonhos de que disporei, que submeterei a meu tempo e minha vontade, que alcançarei com a mão.
Joaquim: O amor voltou para comer os papéis onde irrefletidamente eu tornara a escrever meu nome.
João: Talvez Teresa…Sim, quem me dirá que esse oceano não nos é comum?
Raimundo: Maria era também o jornal. O mundo ainda quente, em sua última edição e mais recente.
Joaquim: O amor roeu minha infância, de dedos sujos de tinta, cabelos caindo nos olhos, botinas nunca engraxadas. O amor roeu o menino esquivo, sempre nos cantos, e que riscava os livros, mordia o lápis, andava na rua chutando pedras. Roeu as conversas, junto à bomba de gasolina do largo, com os primos que tudo sabiam sobre passarinhos, sobre uma mulher, sobre marcas de automóvel.
João: Posso esperar que esse oceano nos seja comum? Um sonho é uma criação minha, nascida de meu tempo adormecido, ou existe nele uma participação de fora, de todo o universo, de sua geografia, sua história, sua poesia?
Raimundo: Maria era também um livro: susto de que estamos certos, susto que praticar, com que fazer os exercícios que nos permitirão entender a voz de uma cadeira, de uma cômoda; susto cuidadosamente oculto, como qualquer animal venenoso, entre as folhas claras e organizadas dessa floresta enumerada que leva dísticos explicativos: poesia, poemas, versos.
Joaquim: O amor comeu meu estado e minha cidade. Drenou a água morta dos mangues, aboliu a maré. Comeu os mangues crespos e de folhas duras, comeu o verde ácido das plantas de cana cobrindo os morros regulares, cortados pelas barreiras vermelhas, pelo trenzindo preto, pelas chaminés. Comeu o cheiro de cana cortada e o cheiro de maresia. Comeu até essas coisas de que eu desesperava por não saber falar delas em verso.
João: O arbusto e a pedra aparecida em qualquer sonho podem ficar indiferentes à vida de que está participando? Pode ignorar o mundo que está ajudando a povoar? É possível que sintam essa participação esses fantasmas, nessa Teresa por exemplo, agora distraída e distante? Há algum sinal que a faça compreender termos sido, juntos, peixes de um mesmo mar?
Raimundo: Maria era também a folha em branco, barreira oposta ao rio impreciso que corre em regiões de alguma parte de nós mesmos. Nessa folha eu construirei um objeto sólido que depois imitarei, o qual depois me definirá. Penso para escolher: um poema, um desenho, um cimento armado — presenças duras e inalteráveis, oposta à minha fuga.
Joaquim: O amor comeu até os dias ainda não anunciados nas folhinhas. Comeu os minutos de um adiantamento de meu relógio, os anos que as linhas de minha mão me asseguram. Comeu o futuro grande atleta, comeu o futuro grande poeta. Comeu as futuras viagens em volta da terra, as futuras estantes em volta da sala.
João: Donde me veio a idéia de que Teresa talvez participe de um universo privado, fechado em minha lembrança? Desse mundo que, através de minha franqueza, compreendi ser o único onde me será possível cumprir os atos mais simples, como por exemplo, caminhar, beber um copo de água, escrever meu nome? Nada, nem mesmo Teresa.
Raimundo: Maria era também o sistema estabelecido de antemão, o fim onde chegar. Era a lucidez, que, ela só, nos pode dar um modo novo e completo de ver uma flor, de ler um verso.
Joaquim: O amor comeu minha paz e minha guerra. Meu dia e minha noite. Meu inverso e meu verão. Comeu meu silêncio, minha dor de cabeça, meu medo da morte.
“Os Três Mal-Amados”, João Cabral de Meto Neto (1943).
João: Olho Teresa. Veja-a sentada aqui a meu lado, a poucos centímetros de mim. A poucos centímetros, muitos quilômetros. Por que essa impressão de que precisaria de quilômetros para medir a distância, o afastamento em que a vejo neste momento?
Raimundo: Maria era a praia que eu frequentava certas manhãs. Meus gestos indispensáveis que se cumpriam a um ar tão absolutamente livre que ele mesmo determina seus limites, meus gestos simplificados diante de extensões de que uma luz geral aboliu todos os segredos.
Joaquim: O amor comeu o meu nome, minha identidade, meu retrato. O amor comeu a minha certidão de idade, minha genealogia, meu endereço. O amor comeu meus cartões de visita. O amor veio e comeu todos os papéis onde eu escrevera meu nome.
João: Olho Teresa como se olhasse o retrato de uma antepassada que tivesse vivido em outro século. Ou como se olhasse um vulto em outro continente, através de um telescópio. Vejo-a como se a cobrisse a poeira tenuíssima ou o ar quase azul que envolvem as pessoas afastadas de nós muitos anos ou muitas léguas.
Raimundo: Maria era sempre uma praia, lugar onde me sinto exato e nítido como uma pedra – meu particular, minha fuga, meu excesso imediatamente evaporados. Maria era o mar dessa praia, sem mistério e sem profundeza. Elementar, como as coisas que podem ser mudadas em vapor ou poeira.
Joaquim: O amor comeu minhas roupas, meus lençóis, minhas camisas. O amor comeu metros e metros de gravatas. O amor comeu a medida de meus ternos, o número de meus sapatos, o tamanho de meus chapéus. O amor comeu minha altura, meu peso, a cor de meus olhos e de meus cabelos.
João: Posso dizer dessa moça a meu lado que é a mesma Teresa que durante todo o dia de hoje, por efeito do gás do sonho, senti pegada a mim?
Raimundo: Maria era também uma fonte. O líquido que começaria a jorrar num momento que eu previa, num ponto que eu poderia examinar, em circunstâncias que eu poderia controlar. Eu aspirava acompanhar com os olhos o crescimento de um arbusto, o surgimento de um jorro de água.
Joaquim: O amor comeu os meus remédios, minhas receitas médicas, minhas dietas. Comeu minhas aspirinas, minhas ondas-curtas, meus raio-x. Comeu meus testes mentais, meus exames de urina.
João: Esta é mesma Teresa que na noite passada conheci em toda intimidade? Posso dizer que a vi, falei-lhe, posso dizer que a tive em toda a intimidade? Que intimidade existe maior que a do sonho? A desse sonho que ainda trago em mim como um objeto que me passasse no bolso?
Raimundo: Maria não era um corpo vago, impreciso. Eu estava ciente de todos os detalhes de seu corpo, que poderia reconstituir à minha vontade. Sua boca, seu sorriso irregular. Todos esses detalhes não me seriam difíceis arrumá-los, recompondo-os, como um jogo de armar ou uma prancha anatômica.
Joaquim: O amor comeu na estante todos os meus livros de poesia. Comeu em meus livros de prosa as citações em verso. Comeu no dicionário as palavras que poderiam se juntar em versos.
João: Ainda me parece sentir o mar do sonho que inundou meu quarto. Ainda sinto a onda chegando à minha cama. Ainda me volta o espanto de despertar entre móveis e paredes que eu não compreendia pudessem estar enxutos. E sem nenhum sinal dessa água que o sol secou, mas de cujo contato ainda me sinto friorento e meio úmido (penso agora que seria mais justo, do mar do sonho, dizer que o sol afugentou, porque os sonhos são como as aves não apenas porque crescem e vivem no ar).
Raimundo: Maria era também, em certas tardes, o campo cimentado que eu atravessava para chegar em algum lugar. Sozinho sobre a terra e sob um sol que me poderia evaporar de toda nuvem.
Joaquim: Faminto o amor devorou os utensílios de meu uso: pente, navalha, escovas, tesouras de unhas, canivete. Faminto ainda, o amor devorou o uso de meus utensílios: meus banhos frios, a ópera cantada no banheiro, o aquecedor de água de fogo morto mas que parecia uma usina.
João: Teresa aqui está ao alcance de minha mão, de minha conversa. Por que, entretanto, me sinto sem direitos fora daquele mar? Ignorante dos gestos, das palavras?
Raimundo: Maria era também uma árvore. Um desses organismos sólidos e práticos, presos à terra com raízes que a exploram e devassam seus segredos. E ao mesmo tempo lançados para o céu, com quem permutam seus gazes, seus pássaros, seus movimentos.
Joaquim: O amor comeu as frutas postas sobre a mesa. Bebeu a água dos copos e das quartinhas. Comeu o pão de propósito escondido. Bebeu as lágrimas dos olhos que, ninguém o sabia, estavam cheios de água.
João: O sonho volta, me envolve novamente. A onda torna a bater em minha cadeira, ameaça chegar até a mesa. Penso que, no meio de toda esta gente da terra, gente que parece ter criado raízes, como um lavrador ou uma colina, sou o único a escutar esse mar. Talvez Teresa…
Raimundo: Maria também era a garrafa de aguardente. Aproximo o ouvido dessa forma correta e explorável e percebo o rumor e os movimentos de sonhos possíveis, ainda em sua matéria líquida, sonhos de que disporei, que submeterei a meu tempo e minha vontade, que alcançarei com a mão.
Joaquim: O amor voltou para comer os papéis onde irrefletidamente eu tornara a escrever meu nome.
João: Talvez Teresa…Sim, quem me dirá que esse oceano não nos é comum?
Raimundo: Maria era também o jornal. O mundo ainda quente, em sua última edição e mais recente.
Joaquim: O amor roeu minha infância, de dedos sujos de tinta, cabelos caindo nos olhos, botinas nunca engraxadas. O amor roeu o menino esquivo, sempre nos cantos, e que riscava os livros, mordia o lápis, andava na rua chutando pedras. Roeu as conversas, junto à bomba de gasolina do largo, com os primos que tudo sabiam sobre passarinhos, sobre uma mulher, sobre marcas de automóvel.
João: Posso esperar que esse oceano nos seja comum? Um sonho é uma criação minha, nascida de meu tempo adormecido, ou existe nele uma participação de fora, de todo o universo, de sua geografia, sua história, sua poesia?
Raimundo: Maria era também um livro: susto de que estamos certos, susto que praticar, com que fazer os exercícios que nos permitirão entender a voz de uma cadeira, de uma cômoda; susto cuidadosamente oculto, como qualquer animal venenoso, entre as folhas claras e organizadas dessa floresta enumerada que leva dísticos explicativos: poesia, poemas, versos.
Joaquim: O amor comeu meu estado e minha cidade. Drenou a água morta dos mangues, aboliu a maré. Comeu os mangues crespos e de folhas duras, comeu o verde ácido das plantas de cana cobrindo os morros regulares, cortados pelas barreiras vermelhas, pelo trenzindo preto, pelas chaminés. Comeu o cheiro de cana cortada e o cheiro de maresia. Comeu até essas coisas de que eu desesperava por não saber falar delas em verso.
João: O arbusto e a pedra aparecida em qualquer sonho podem ficar indiferentes à vida de que está participando? Pode ignorar o mundo que está ajudando a povoar? É possível que sintam essa participação esses fantasmas, nessa Teresa por exemplo, agora distraída e distante? Há algum sinal que a faça compreender termos sido, juntos, peixes de um mesmo mar?
Raimundo: Maria era também a folha em branco, barreira oposta ao rio impreciso que corre em regiões de alguma parte de nós mesmos. Nessa folha eu construirei um objeto sólido que depois imitarei, o qual depois me definirá. Penso para escolher: um poema, um desenho, um cimento armado — presenças duras e inalteráveis, oposta à minha fuga.
Joaquim: O amor comeu até os dias ainda não anunciados nas folhinhas. Comeu os minutos de um adiantamento de meu relógio, os anos que as linhas de minha mão me asseguram. Comeu o futuro grande atleta, comeu o futuro grande poeta. Comeu as futuras viagens em volta da terra, as futuras estantes em volta da sala.
João: Donde me veio a idéia de que Teresa talvez participe de um universo privado, fechado em minha lembrança? Desse mundo que, através de minha franqueza, compreendi ser o único onde me será possível cumprir os atos mais simples, como por exemplo, caminhar, beber um copo de água, escrever meu nome? Nada, nem mesmo Teresa.
Raimundo: Maria era também o sistema estabelecido de antemão, o fim onde chegar. Era a lucidez, que, ela só, nos pode dar um modo novo e completo de ver uma flor, de ler um verso.
Joaquim: O amor comeu minha paz e minha guerra. Meu dia e minha noite. Meu inverso e meu verão. Comeu meu silêncio, minha dor de cabeça, meu medo da morte.
Tradução italiana de “Os Três Mal-Amados”, João Cabral de Meto Neto (1943).
Mal d’amore
Il titolo originale di questa piccolo monologo a tre voci è “Os três mal-amados” (1943), letteralmente i tre malamati, ma tradotto col titolo Mal d’amore. João Cabral de Melo Neto (1920-1999) lo ha scritto ispirandosi ad una poesia de Carlos Drummond De Andrade (1902-1987), il cui titolo è Quadrilha (1930) in italiano Quadriglia, i gruppi di quattro persone che eseguono balli popolari, mutando costantemente il partner attraverso uno scambio di posizioni .
A seguire un piccolo estratto di Quadrilha per poter entrare nello spirito di Mal d’amore.
João amava Teresa che amava Raimundo
che amava Maria che amava Joaquim
che amava Lili…
João: Guardo Teresa. È seduta qui accanto a me, a pochi centimetri. A pochi centimetri, molti chilometri. Perché questa sensazione che mi servirebbero chilometri per misurare la distanza, la lontananza in cui la vedo in questo momento?
Raimundo: Maria era la spiaggia dove andavo alcune mattine. I miei gesti inevitabili, compiuti all’aria aperta, così aperta che essa stessa ne definiva i confini. I miei gesti semplificati innanzi a estensioni i cui segreti erano stati aboliti da una luce diffusa.
Joaquim: L’amore ha divorato il mio nome, la mia identità, la mia foto. L’amore ha divorato la mia carta d’identità, la mia genealogia, il mio indirizzo. L’amore ha divorato i miei biglietti da visita. L’amore è arrivato e ha divorato tutti i fogli su cui avevo scritto il mio nome.
João: Guardo Teresa come se guardassi il ritratto di un’antenata vissuta in un altro secolo. O come se guardassi un volto in un altro continente, attraverso un telescopio. La vedo come se fosse ricoperta da una polvere leggerissima o da un’aria azzurrognola che avvolge le persone distanti da noi molti anni o molte leghe.
Raimundo: Maria è sempre stata una spiaggia, il posto dove mi sento esatto e nitido come una pietra — un dettaglio, una fuga, un eccesso subito evaporati. Maria era il mare di questa spiaggia, senza mistero, né profondità. Elementare, come le cose che possono mutare in vapore o polvere.
Joaquim: L’amore ha divorato i miei vestiti, i fazzoletti al taschino, le mie camicie. L’amore ha divorato metri e metri di cravatte. L’amore ha divorato la taglia dei miei vestiti, il numero delle mie scarpe, la circonferenza dei miei cappelli. L’amore ha divorato la mia altezza, il mio peso, il colore dei miei occhi e i miei capelli.
João: Posso dire che questa ragazza accanto a me è la stessa Teresa che per tutto il giorno, per effetto del gas dei sogni, ho sentito attaccata a me?
Raimundo: Maria era anche una fontana. Il liquido che sarebbe cominciato a zampillare in un momento che potevo prevedere, in un punto che avrei potuto esaminare, in circostanze che avrei potuto controllare. Aspiravo ad accompagnare con gli occhi la crescita di un arbusto, il sorgere di uno zampillo di acqua.
Joaquim: L’amore ha divorato le mie medicine, le mie ricette mediche, le mie diete. Ha divorato le mie aspirine, il mio elettrocardiogramma, le mie radiografie. Ha divorato il mio elettroencefalogramma, gli esami delle mie urine.
João: Questa è la stessa Teresa che la scorsa notte ho conosciuto in tutta la sua intimità? Posso dire di averla vista, di averle parlato, posso dire di averla avuta in tutta la sua intimità? Quale intimità più grande, se non quella del sogno? Quel sogno che porto ancora dentro di me come se avessi un oggetto pesante in tasca?
Raimundo: Maria non era un corpo indefinito, impreciso. Ne conoscevo tutti i dettagli. Avrei potuto ricostruirlo ogni volta che lo volevo. La sua bocca, il suo sorriso irregolare. Non mi sarebbe stato difficile riordinare tutti questi dettagli, ricomporla come in un gioco di costruzioni o una scheda di anatomia.
Joaquim: L’amore ha divorato tutti i miei libri di poesia sullo scaffale. Ha divorato i miei libri di prosa, le citazioni in versi. Ha divorato nel dizionario le parole che avrebbero potuto unirsi in versi.
João: Mi sembra di sentire ancora il mare del sogno che ha inondato la mia stanza. Sento ancora l’onda arrivare al mio letto. Mi ritorna ancora lo spavento di svegliarmi tra mobili e pareti che non capivo come mai potessero essere rimasti asciutti. E senza nessun segnale di quell’acqua che il sole aveva asciugato, ma al cui contatto ancora mi sento infreddolito e mezzo umido (adesso penso che sarebbe più giusto, del mare del sogno, dire che il sole lo ha messo in fuga, perché i sogni sono come gli uccelli non solo perché crescono e vivono nell’aria).
Raimundo: Maria era anche, certi pomeriggi, un campo ricoperto di cemento che attraversavo per arrivare da qualche parte. Solo sulla terra e sotto un sole che mi avrebbe fatto evaporare da qualsiasi nuvola.
Joaquim: Vorace, l’amore ha divorato gli utensili che usavo: pettine, rasoio, spazzole, forbici, coltellino svizzero. Con ancora più voracia, l’amore ha divorato l’uso dei miei utensili: le mie docce fredde, l’opera cantata in bagno, lo scaldabagno dell’acqua ormai in disuso, ma che ancora sembrava la caldaia di una fabbrica.
João: Teresa è qui, a portata di mano, del mio parlare. Perché, intanto, mi sento senza nessun diritto fuori da quel mare? Ignorante di gesti, di parole?
Raimundo: Maria era anche un albero. Uno di quegli organismi solidi e pratici attaccati alla terra con le radici che la esplorano e ne invadono i segreti. E allo stesso tempo lanciati verso il cielo, con cui scambia i suoi gas, i suoi uccelli, i suoi movimenti.
Joaquim: L’amore ha divorato la frutta sul tavolo. Ha bevuto l’acqua dai bicchieri e dalle brocche. Ha divorato il pane, nascosto di proposito. Ha bevuto le lacrime degli occhi che, nessuno lo sapeva, erano gonfi d’acqua.
João: Il sogno ritorna, mi coinvolge di nuovo. L’onda torna a sbattere contro la sedia, minaccia di arrivare al tavolo. Penso che, in mezzo a tutta questa gente di terra, gente che sembra aver creato radici, come un contadino o una collina, sono l’unico a sentire questo mare. Chissà Teresa…
Raimundo: Maria era anche una bottiglia di grappa. Avvicino l’orecchio a questa forma perfetta ed esplorabile, ne percepisco il rumore, i movimenti di sogni possibili. Percepisco, ancora, nella sua materia liquida, sogni che metterò in ordine, sottometterò al mio tempo e alla mia volontà, sogni che toccherò con le mani.
Joaquim: L’amore è tornato per divorare i fogli dove automaticamente avevo ricominciato a scrivere il mio nome.
Joao: Chissà Teresa… Sì, chi mi dirà che questo oceano non ci è comune?
Raimundo: Maria era anche un giornale. Il mondo ancora caldo, nella sua ultima e più recente edizione.
Joaquim: L’amore ha rosicchiato la mia infanzia, di dita sporche di pittura, di frangia sugli occhi, di stivaletti mai lucidati. L’amore ha rosicchiato il bambino schivo, sempre in un angolo e che scriveva sui libri, mordeva le matite, andava per strada dando calci alle pietre. Ha rosicchiato i discorsi fatti alla pompa di benzina della piazzetta con i cugini che sapevano tutto di passeri, donne e automobili.
João: Posso sperare che questo oceano ci sia comune? Un sogno è una mia creazione nata dal mio tempo dormiente o esiste in esso una qualche partecipazione esterna, di tutto l’universo, della sua geografia, della sua storia, della sua poesia?
Raimundo: Maria era anche un libro di terrore: un terrore di cui abbiamo la certezza, un terrore da praticare, con cui esercitarsi per poter sentire la voce di una sedia, di una cassettiera; terrore nascosto con attenzione, come un qualsiasi animale velenoso tra foglie chiare e organizzate di una foresta numerata che porta distici esplicativi: poesia, poesie, versi.
Joaquim: L’amore ha divorato il mio stato e la mia città. Ha drenato l’acqua morta delle rive limacciose, ha abolito la marea. Ha divorato le piante crespe dalle foglie dure degli stagni salmastri, ha divorato il verde acido delle piante di canna che coprono le colline regolari tagliate dalle barriere rosse, dal trenino nero, dai focolari. Ha divorato l’odore della canna tagliata e l’odore della brezza di mare. Ha persino divorato cose non mi immaginavo perché non sapevo parlar d’esse in versi.
João: L’arbusto o la pietra apparsi in un sogno qualsiasi possono rimanere indifferenti alla vita della quale sono partecipi? Possono ignorare il mondo che pure contribuiscono a popolare? È possibile che sentano questa partecipazione, questi fantasmi, in questa Teresa, ad esempio, ora distratta e distante? Esiste un qualche segnale che le faccia comprendere che siamo stati, insieme, pesci di uno stesso mare?
Raimundo: Maria era anche un foglio bianco, barriera opposta al fiume impreciso che scorre in alcune regioni da qualche parte dentro di noi. In questo foglio costruirò un oggetto solido che in seguito imiterò, e che poi mi definirà. Penso di scegliere: una poesia, un disegno, del cemento armato — presenze dure e immutabili, opposte alla mia fuga.
Joaquim: L’amore ha divorato i giorni non ancora annunciati dal calendario. Ha divorato i minuti di un anticipo del mio orologio, gli anni che le linee della mia mano mi avevano assicurato. Ha divorato il futuro grande atleta, il futuro grande poeta. Ha divorato i futuri viaggi attorno al mondo, i futuri scaffali attorno al soggiorno.
João: Da dove mi è saltata fuori l’idea che Teresa possa sentirsi partecipe di un universo privato, chiuso nei miei ricordi? Di questo mondo che, attraverso la mia franchezza, ho capito essere l’unico dove mi sarà possibile compiere gli atti più semplici, come ad esempio, camminare, bere un bicchier d’acqua, scrivere il mio nome? Niente, nemmeno la stessa Teresa.
Raimundo: Maria era anche il sistema fissato in antecedenza, fine ultimo cui arrivare. Era quella lucidità, che, lei sola, può darci un modo nuovo e completo di vedere un fiore, di leggere un verso.
Joaquim: L’amore ha divorato la mia pace e la mia guerra. Il mio giorno e la mia notte. Il mio inverno e la mia estate. Ha divorato il mio silenzio, il mio mal di testa, la mia paura della morte.
Nota: Nella versione originale lo scrittore usa il verbo comer, roer e devorar per indicare l’azione compiuta dall’amore nelle battute di Joaquim. Sono tutti verbi legati all’uso della bocca e dei denti per l’ingestione di cibi. Il verbo roer, in relazione agli esseri umani è legato all’idea di mangiare le unghie, e in relazione agli animali, al rodere dei roditori. Nella versione tradotta ho dovuto venir meno alla gradazione di intensità di questi verbi, visto che comer, che potrebbe essere tradotto con un normalissimo mangiare, in portoghese può essere usato con un intensità più forte, tanto da indicare anche la consumazione di una relazione sessuale. In questo testo tradurre l’amore ha mangiato (…) avrebbe fatto perdere buona parte della forza semantica propria della parola portoghese. Ho optato, pertanto, per l’eleiminazione della gradazione tra comer e devorar per non perdere la potenza semantica del verbo più usato nelle battute di Joaquim. Quanto al verbo roer, sebbene prossimo alla parola unghie con una chiara allusione all’idea di mangiare le unghie, si è preferito mantenerlo con la traduzione di rodere, per poter mantenere una gradazione semantica che non fosse al ribasso dopo divorare, visto che già si era persa la gradazione anteriore tra comer e devorar. Oltretutto il verbo rodere trasmette l’idea di logoramento che credo sia il proposito dell’autore. Quanto alle altre scelte traduttive, non mi sembra necessario spiegarle, un buon traduttore concorderà o discorderà e un buon lettore apprezzerà.