Tradução do original: EVARISTO, Conceição. Olhos de água. Rio de Janeiro: Fundação biblioteca nacional/Pallas Editora, 2016 (p. 10-12).
Occhi d’acqua
Una notte, anni fa, mi sono svegliata bruscamente e una strana domanda ha deflagrato dalla mia bocca. Di che colore erano gli occhi di mia madre? Stordita, ci ho messo un po’ a riconoscere la stanza della nuova casa in cui stavo vivendo, senza riuscire a ricordare come vi fossi arrivata. E quella domanda insistente martellava e martellava. Di che colore erano gli occhi di mia madre? Quell’interrogativo era sorto da giorni, da mesi, posso dire. Tra un da farsi e l’altro, mi ritrovavo a pensare di che colore fossero gli occhi di mia madre. E ciò che fino a quel momento era stato un mero pensiero interrogativo, quella notte si era trasformato in una dolorosa domanda carica di un tono d’accusa. Dunque, non sapevo di che colore fossero gli occhi di mia madre?
Essendo la prima di sette figlie, sin da piccola provavo a risolvere le mie difficoltà da sola, sono cresciuta in fretta passando per un’adolescenza breve.
Sempre al lato di mia madre, ho imparato a conoscerla. Decifravo il suo silenzio nei momenti difficili, così come sapevo riconoscere nei suoi gesti avvisaglie di possibili allegrie. In quel momento, intanto, mi riscoprivo piena di colpa perché non riuscivo a ricordare di che colore fossero i suoi occhi. Trovavo tutto molto strano, infatti mi ricordavo nitidamente di vari dettagli del suo corpo. Dell’unghia incarnita del mignolino del piede sinistro…della verruca che si perdeva nei suoi capelli crespi e belli…Un giorno, giocando a pettinare la bambola, gioia che nostra madre ci concedeva quando, mettendo da parte per un momento il lava-lava e stira-stira dei vestiti altrui, trasformandosi in una grande bambola nera per le figlie, scoprimmo una pallina annidata proprio sul suo cuoio capelluto. Pensammo che fosse una zecca. La mamma sonnecchiava e una delle mie sorelle, afflitta, volendo liberare la bambola-mamma da quella sofferenza, rimosse rapidamente la bestiolina. La mamma e noi ci mettemmo a ridere, ma a ridere e a ridere così tanto del nostro sbaglio. La mamma rise tanto fino a farsi uscire le lacrime. Ma di che colore erano i suoi occhi?
Io mi ricordavo anche di alcune storie di infanzia di mia madre. Lei era nata in un posto sperduto di Minas. Lì, i bambini andavano in giro nudi fino a quando erano grandicelli. Le bambine, invece, non appena cominciavano a spuntargli i seni, ricevevano vestiti prima dei bambini. A volte, le storie di infanzia di mia madre si confondevano con quelle della mia stessa infanzia. Mi ricordo che spesso, quando mia madre cucinava, dalla pentola non usciva nessun profumino. Era come se, lì, cucinasse soltanto il nostro disperato desiderio di alimento. Le fiammelle, sotto l’acqua solitaria che bolliva nella pentola morta di fame, sembravano prendere in giro il vuoto del nostro stomaco, ignorando le nostre bocche infantili in cui le lingue giocavano a salivare sogni di cibo. Ed era proprio in quei giorni di parco o di nessun alimento che lei giocava di più con le figlie. In quelle occasioni il gioco preferito era quello in cui la mamma era la Signora, la Regina. Si accomodava sul suo trono, un piccolo sgabello di legno. Felici, raccoglievamo fiori coltivati in un piccolo pezzo di terra che circondava la nostra baracca. I fiori, successivamente, erano solennemente disposti tra i suoi capelli, sulle braccia e il collo. Innanzi a lei facevamo reverenza alla Signora. Ci disponevamo stese a terra e chinavamo il capo innanzi alla Regina. Noi, principesse attorno a lei, cantavamo, danzavamo, sorridevamo. La mamma sapeva ridere soltanto in un modo triste e con un sorriso bagnato…Ma di che colore erano i suoi occhi? Io lo sapevo sin da allora che la mamma inventava questo e altri giochi per distrarre la nostra fame. E la nostra fame si distraeva.
A volte, verso la fine del pomeriggio, prima che la notte prendesse il sopravvento, si sedeva sull’uscio della porta e, insieme, restavamo a contemplare le arti delle nuvole in cielo. Alcune diventavano agnellini; altre, cagnolini; alcune, giganti addormentati, e poi c’erano quelle che erano soltanto nuvole, zucchero filato. La mamma allora stendeva il braccio e, arrivando fino al cielo, raccoglieva quella nuvola dividendola in pezzettini che infilava presto presto in bocca ad ognuna di noi. Doveva essere tutto molto rapido, prima che la nuvola si sciogliesse e con essa svanissero anche i nostri sogni. Ma di che colore erano gli occhi di mia madre?
Mi ricordo ancora della paura di mia madre nei giorni di forti piogge. Sul letto, stretta a noi, ci proteggeva col suo abbraccio. E con gli occhi inondati di lacrime balbettava preghiere a Santa Barbara, temendo che la nostra fragile baracca ci cadesse addosso. Non so se era il lamento-pianto di mia madre o se il rumore della pioggia… So solo che ogni cosa mi causava la sensazione che la nostra casa oscillasse al vento. In quei momenti gli occhi di mia madre si confondevano con gli occhi della natura. Pioveva, piangeva! Piangeva, pioveva! Allora, perché io non riuscivo a ricordarmi il colore dei suoi occhi? E quella notte la domanda continuava a tormentarmi. Erano anni che ero lontana dalla mia città natale. Ero uscita di casa alla ricerca di una migliore condizione di vita per me e per la mia famiglia: lei e le mie sorelle erano rimaste là. Ma io non mi ero mai dimenticata di mia madre. Riconoscevo la sua importanza nella mia vita, non solo la sua, ma anche delle mie zie e di tutte le donne della mia famiglia. Già a quell’epoca intonavo canti di lode anche per tutte le nostre donne di generazioni anteriori, che dall’Africa venivano arando la terra della vita con le loro stesse mani, parole e sangue. No, io non mi dimentico di queste Signore, nostre Yabás, depositarie di tanta saggezza. Ma di che colore erano gli occhi di mia madre?
E fu allora che, in preda alla disperazione, perché non ricordavo di che colore fossero gli occhi di mia madre, in quell’esatto momento decisi di lasciare tutto e il giorno dopo tornare alla città in cui ero nata. Avevo bisogno di cercare il volto di mia madre, fissare il mio sguardo nel suo, per non dimenticare mai più il colore dei suoi occhi.
Così feci. Tornai, afflitta, ma soddisfatta. Vivevo la sensazione di star compiendo un rituale in cui l’oblazione agli Orixá sarebbe dovuta scaturire dal colore degli occhi di mia madre.
E quando, dopo lunghi giorni di viaggio per arrivare alla mia terra, potei finalmente contemplare estasiata gli occhi di mia madre, sapete cosa vidi? Sapete cosa vidi?
Vidi soltanto lacrime e lacrime. Tuttavia, sorrideva felice. Ma erano così tante lacrime che mi chiesi se mia madre avesse in viso occhi o fiumi abbondanti. Il colore degli occhi di mia madre era colore d’occhi d’acqua. Le acque di Mamma Oxum! Fiumi calmi, ma profondi e ingannevoli per chi contempla la vita soltanto in superficie. Sì, le acque di Mamma Oxum.
Abbracciai mia madre, avvicinai il mio viso al suo chiedendo protezione. Sentii le sue lacrime mescolarsi alle mie.
Oggi, avendo già ritrovato il colore degli occhi di mia madre, provo a scoprire il colore degli occhi di mia figlia. Gioco a fare che gli occhi di una diventano lo specchio degli occhi dell’altra. E uno di questi giorni mi sono stupita con un gesto della mia bambina. Quando entrambe facevamo questo dolce gioco, mi ha toccato leggermente il viso guardandomi intensamente. E, mentre lanciava il suo sguardo nel mio, mi ha chiesto a bassa voce, ma così a bassa voce come se fosse una domanda solo per lei o come se stesse cercando e provando a trovare la rivelazione di un mistero o di un grande segreto. Ascoltai quando, sussurrando, mia figlia disse:
Texto retirado de: EVARISTO, Conceição. Olhos de água. Rio de Janeiro: Fundação biblioteca nacional/Pallas Editora, 2016 (p. 10-12).
Olhos d’água
Uma noite, há anos, acordei bruscamente e uma estranha pergunta explodiu de minha boca. De que cor eram os olhos de minha mãe? Atordoada, custei reconhecer o quarto da nova casa em que eu que estava morando e não conseguia me lembrar de como havia chegado até ali. E a insistente pergunta martelando, martelando. De que cor eram os olhos de minha mãe? Aquela indagação havia surgido há dias, há meses, posso dizer. Entre um afazer e outro, eu me pegava pensando de que cor seriam os olhos de minha mãe. E o que a princípio tinha sido um mero pensamento interrogativo, naquela noite se transformou em uma dolorosa pergunta carregada de um tom acusativo. Então eu não sabia de que cor eram os olhos de minha mãe?
Sendo a primeira de sete filhas, desde cedo busquei dar conta de minhas próprias dificuldades, cresci rápido, passando por uma breve adolescência. Sempre ao lado de minha mãe, aprendi a conhecê-la. Decifrava o seu silêncio nas horas de dificuldades, como também sabia reconhecer, em seus gestos, prenúncios de possíveis alegrias. Naquele momento, entretanto, me descobria cheia de culpa, por não recordar de que cor seriam os seus olhos. Eu achava tudo muito estranho, pois me lembrava nitidamente de vários detalhes do corpo dela. Da unha encravada do dedo mindinho do pé esquerdo… da verruga que se perdia no meio uma cabeleira crespa e bela… Um dia, brincando de pentear boneca, alegria que a mãe nos dava quando, deixando por uns momentos o lava-lava, o passa-passa das roupagens alheias e se tornava uma grande boneca negra para as filhas, descobrimos uma bolinha escondida bem no couro cabeludo dela. Pensamos que fosse carrapato. A mãe cochilava e uma de minhas irmãs, aflita, querendo livrar a boneca-mãe daquele padecer, puxou rápido o bichinho. A mãe e nós rimos e rimos e rimos de nosso engano. A mãe riu tanto, das lágrimas escorrerem. Mas de que cor eram os olhos dela?
Eu me lembrava também de algumas histórias da infância de minha mãe. Ela havia nascido em um lugar perdido no interior de Minas. Ali, as crianças andavam nuas até bem grandinhas. As meninas, assim que os seios começavam a brotar, ganhavam roupas antes dos meninos. Às vezes, as histórias da infância de minha mãe confundiam-se com as de minha própria infância. Lembro-me de que muitas vezes, quando a mãe cozinhava, da panela subia cheiro algum. Era como se cozinhasse, ali, apenas o nosso desesperado desejo de alimento. As labaredas, sob a água solitária que fervia na panela cheia de fome, pareciam debochar do vazio do nosso estômago,
ignorando nossas bocas infantis em que as línguas brincavam a salivar sonho de comida. E era justamente nesses dias de parco ou nenhum alimento que ela mais brincava com as filhas. Nessas ocasiões a brincadeira preferida era aquela em que a mãe era a Senhora, a Rainha. Ela se assentava em seu trono, um pequeno banquinho de madeira. Felizes, colhíamos flores cultivadas em um pequeno pedaço de terra que circundava o nosso barraco. As flores eram depois solenemente distribuídas por seus cabelos, braços e colo. E diante dela fazíamos reverências à Senhora. Postávamos deitadas no chão e batíamos cabeça para a Rainha. Nós, princesas, em volta dela, cantávamos, dançávamos, sorríamos. A mãe só ria de uma maneira triste e com um sorriso molhado… Mas de que cor eram os olhos de minha mãe? Eu sabia, desde
aquela época, que a mãe inventava esse e outros jogos para distrair a nossa fome. E a nossa fome se distraía.
Às vezes, no final da tarde, antes que a noite tomasse conta do tempo, ela se sentava na soleira da porta e, juntas, ficávamos contemplando as artes das nuvens no céu. Umas viravam carneirinhos; outras, cachorrinhos; algumas, gigantes adormecidos, e havia aquelas que eram só nuvens, algodão doce. A mãe, então, espichava o braço, que ia até o céu, colhia aquela nuvem, repartia em pedacinhos e enfiava rápido na boca de cada uma de nós. Tudo tinha de ser muito rápido, antes que a nuvem derretesse e com ela os nossos sonhos se esvaecessem também. Mas de que cor eram os olhos de minha mãe?
Lembro-me ainda do temor de minha mãe nos dias de fortes chuvas. Em cima da cama, agarrada a nós, ela nos protegia com seu abraço. E com os olhos alagados de prantos balbuciava rezas a Santa Bárbara, temendo que o nosso frágil barraco desabasse sobre nós. E eu não sei se o lamento-pranto de minha mãe, se o barulho da chuva… Sei que tudo me causava a sensação de que a nossa casa balançava ao vento. Nesses momentos os olhos de minha mãe se confundiam com os olhos da natureza. Chovia, chorava! Chorava, chovia! Então, por que eu não conseguia lembrar a cor dos olhos dela? E naquela noite a pergunta continuava me atormentando. Havia anos que eu estava fora de minha cidade natal. Saíra de minha casa em busca de
melhor condição de vida para mim e para minha família: ela e minhas irmãs tinham ficado para trás. Mas eu nunca esquecera a minha mãe. Reconhecia a importância dela na minha vida, não só dela, mas de minhas tias e de todas as mulheres de minha família. E também, já naquela época, eu entoava cantos de louvor a todas nossas ancestrais, que desde a África vinham arando a terra da vida com as suas próprias mãos, palavras e sangue. Não, eu não esqueço essas Senhoras, nossas Yabás, donas de tantas sabedorias. Mas de que cor eram os olhos de minha mãe?
E foi então que, tomada pelo desespero por não me lembrar de que cor seriam os olhos de minha mãe, naquele momento resolvi deixar tudo e, no dia seguinte, voltar à cidade em que nasci. Eu precisava buscar o rosto de minha mãe, fixar o meu olhar no dela, para nunca mais esquecer a cor de seus olhos.
Assim fiz. Voltei, aflita, mas satisfeita. Vivia a sensação de estar cumprindo um ritual, em que a oferenda aos Orixás deveria ser descoberta da cor dos olhos de minha mãe.
E quando, após longos dias de viagem para chegar à minha terra, pude contemplar extasiada os olhos de minha mãe, sabem o que vi? Sabem o que vi?
Vi só lágrimas e lágrimas. Entretanto, ela sorria feliz. Mas eram tantas lágrimas, que eu me perguntei se minha mãe tinha olhos ou rios caudalosos sobre a face. E só então compreendi. Minha mãe trazia, serenamente em si, águas correntezas. Por isso, prantos e prantos a enfeitar o seu rosto. A cor dos olhos de minha mãe era cor de olhos d’água. Águas de Mamãe Oxum! Rios calmos, mas profundos e enganosos para quem contempla a vida apenas pela superfície. Sim, águas de Mamãe Oxum.
Abracei a mãe, encostei meu rosto no dela e pedi proteção. Senti as lágrimas delas se misturarem às minhas.
Hoje, quando já alcancei a cor dos olhos de minha mãe, tento descobrir a cor dos olhos de minha filha. Faço a brincadeira em que os olhos de uma se tornam o espelho para os olhos da outra. E um dia desses me surpreendi com um gesto de minha menina. Quando nós duas estávamos nesse doce jogo, ela tocou suavemente no meu rosto, me contemplando intensamente. E, enquanto jogava o olhar dela no meu, perguntou baixinho, mas tão baixinho, como se fosse uma pergunta para ela mesma, ou como estivesse buscando e encontrando a revelação de um mistério ou de um grande segredo. Eu escutei quando, sussurrando, minha filha falou:
— Mãe, qual é a cor tão úmida de seus olhos?
Texto retirado de: EVARISTO, Conceição. Olhos de água. Rio de Janeiro: Fundação biblioteca nacional/Pallas Editora, 2016 (p. 10-12).
Olhos d’água
Uma noite, há anos, acordei bruscamente e uma estranha pergunta explodiu de minha boca. De que cor eram os olhos de minha mãe? Atordoada, custei reconhecer o quarto da nova casa em que eu que estava morando e não conseguia me lembrar de como havia chegado até ali. E a insistente pergunta martelando, martelando. De que cor eram os olhos de minha mãe? Aquela indagação havia surgido há dias, há meses, posso dizer. Entre um afazer e outro, eu me pegava pensando de que cor seriam os olhos de minha mãe. E o que a princípio tinha sido um mero pensamento interrogativo, naquela noite se transformou em uma dolorosa pergunta carregada de um tom acusativo. Então eu não sabia de que cor eram os olhos de minha mãe?
Sendo a primeira de sete filhas, desde cedo busquei dar conta de minhas próprias dificuldades, cresci rápido, passando por uma breve adolescência. Sempre ao lado de minha mãe, aprendi a conhecê-la. Decifrava o seu silêncio nas horas de dificuldades, como também sabia reconhecer, em seus gestos, prenúncios de possíveis alegrias. Naquele momento, entretanto, me descobria cheia de culpa, por não recordar de que cor seriam os seus olhos. Eu achava tudo muito estranho, pois me lembrava nitidamente de vários detalhes do corpo dela. Da unha encravada do dedo mindinho do pé esquerdo… da verruga que se perdia no meio uma cabeleira crespa e bela… Um dia, brincando de pentear boneca, alegria que a mãe nos dava quando, deixando por uns momentos o lava-lava, o passa-passa das roupagens alheias e se tornava uma grande boneca negra para as filhas, descobrimos uma bolinha escondida bem no couro cabeludo dela. Pensamos que fosse carrapato. A mãe cochilava e uma de minhas irmãs, aflita, querendo livrar a boneca-mãe daquele padecer, puxou rápido o bichinho. A mãe e nós rimos e rimos e rimos de nosso engano. A mãe riu tanto, das lágrimas escorrerem. Mas de que cor eram os olhos dela?
Eu me lembrava também de algumas histórias da infância de minha mãe. Ela havia nascido em um lugar perdido no interior de Minas. Ali, as crianças andavam nuas até bem grandinhas. As meninas, assim que os seios começavam a brotar, ganhavam roupas antes dos meninos. Às vezes, as histórias da infância de minha mãe confundiam-se com as de minha própria infância. Lembro-me de que muitas vezes, quando a mãe cozinhava, da panela subia cheiro algum. Era como se cozinhasse, ali, apenas o nosso desesperado desejo de alimento. As labaredas, sob a água solitária que fervia na panela cheia de fome, pareciam debochar do vazio do nosso estômago,
ignorando nossas bocas infantis em que as línguas brincavam a salivar sonho de comida. E era justamente nesses dias de parco ou nenhum alimento que ela mais brincava com as filhas. Nessas ocasiões a brincadeira preferida era aquela em que a mãe era a Senhora, a Rainha. Ela se assentava em seu trono, um pequeno banquinho de madeira. Felizes, colhíamos flores cultivadas em um pequeno pedaço de terra que circundava o nosso barraco. As flores eram depois solenemente distribuídas por seus cabelos, braços e colo. E diante dela fazíamos reverências à Senhora. Postávamos deitadas no chão e batíamos cabeça para a Rainha. Nós, princesas, em volta dela, cantávamos, dançávamos, sorríamos. A mãe só ria de uma maneira triste e com um sorriso molhado… Mas de que cor eram os olhos de minha mãe? Eu sabia, desde
aquela época, que a mãe inventava esse e outros jogos para distrair a nossa fome. E a nossa fome se distraía.
Às vezes, no final da tarde, antes que a noite tomasse conta do tempo, ela se sentava na soleira da porta e, juntas, ficávamos contemplando as artes das nuvens no céu. Umas viravam carneirinhos; outras, cachorrinhos; algumas, gigantes adormecidos, e havia aquelas que eram só nuvens, algodão doce. A mãe, então, espichava o braço, que ia até o céu, colhia aquela nuvem, repartia em pedacinhos e enfiava rápido na boca de cada uma de nós. Tudo tinha de ser muito rápido, antes que a nuvem derretesse e com ela os nossos sonhos se esvaecessem também. Mas de que cor eram os olhos de minha mãe?
Lembro-me ainda do temor de minha mãe nos dias de fortes chuvas. Em cima da cama, agarrada a nós, ela nos protegia com seu abraço. E com os olhos alagados de prantos balbuciava rezas a Santa Bárbara, temendo que o nosso frágil barraco desabasse sobre nós. E eu não sei se o lamento-pranto de minha mãe, se o barulho da chuva… Sei que tudo me causava a sensação de que a nossa casa balançava ao vento. Nesses momentos os olhos de minha mãe se confundiam com os olhos da natureza. Chovia, chorava! Chorava, chovia! Então, por que eu não conseguia lembrar a cor dos olhos dela? E naquela noite a pergunta continuava me atormentando. Havia anos que eu estava fora de minha cidade natal. Saíra de minha casa em busca de
melhor condição de vida para mim e para minha família: ela e minhas irmãs tinham ficado para trás. Mas eu nunca esquecera a minha mãe. Reconhecia a importância dela na minha vida, não só dela, mas de minhas tias e de todas as mulheres de minha família. E também, já naquela época, eu entoava cantos de louvor a todas nossas ancestrais, que desde a África vinham arando a terra da vida com as suas próprias mãos, palavras e sangue. Não, eu não esqueço essas Senhoras, nossas Yabás, donas de tantas sabedorias. Mas de que cor eram os olhos de minha mãe?
E foi então que, tomada pelo desespero por não me lembrar de que cor seriam os olhos de minha mãe, naquele momento resolvi deixar tudo e, no dia seguinte, voltar à cidade em que nasci. Eu precisava buscar o rosto de minha mãe, fixar o meu olhar no dela, para nunca mais esquecer a cor de seus olhos.
Assim fiz. Voltei, aflita, mas satisfeita. Vivia a sensação de estar cumprindo um ritual, em que a oferenda aos Orixás deveria ser descoberta da cor dos olhos de minha mãe.
E quando, após longos dias de viagem para chegar à minha terra, pude contemplar extasiada os olhos de minha mãe, sabem o que vi? Sabem o que vi?
Vi só lágrimas e lágrimas. Entretanto, ela sorria feliz. Mas eram tantas lágrimas, que eu me perguntei se minha mãe tinha olhos ou rios caudalosos sobre a face. E só então compreendi. Minha mãe trazia, serenamente em si, águas correntezas. Por isso, prantos e prantos a enfeitar o seu rosto. A cor dos olhos de minha mãe era cor de olhos d’água. Águas de Mamãe Oxum! Rios calmos, mas profundos e enganosos para quem contempla a vida apenas pela superfície. Sim, águas de Mamãe Oxum.
Abracei a mãe, encostei meu rosto no dela e pedi proteção. Senti as lágrimas delas se misturarem às minhas.
Hoje, quando já alcancei a cor dos olhos de minha mãe, tento descobrir a cor dos olhos de minha filha. Faço a brincadeira em que os olhos de uma se tornam o espelho para os olhos da outra. E um dia desses me surpreendi com um gesto de minha menina. Quando nós duas estávamos nesse doce jogo, ela tocou suavemente no meu rosto, me contemplando intensamente. E, enquanto jogava o olhar dela no meu, perguntou baixinho, mas tão baixinho, como se fosse uma pergunta para ela mesma, ou como estivesse buscando e encontrando a revelação de um mistério ou de um grande segredo. Eu escutei quando, sussurrando, minha filha falou:
— Mãe, qual é a cor tão úmida de seus olhos?
Tradução do original: EVARISTO, Conceição. Olhos de água. Rio de Janeiro: Fundação biblioteca nacional/Pallas Editora, 2016 (p. 10-12).
Occhi d’acqua
Una notte, anni fa, mi sono svegliata bruscamente e una strana domanda ha deflagrato dalla mia bocca. Di che colore erano gli occhi di mia madre? Stordita, ci ho messo un po’ a riconoscere la stanza della nuova casa in cui stavo vivendo, senza riuscire a ricordare come vi fossi arrivata. E quella domanda insistente martellava e martellava. Di che colore erano gli occhi di mia madre? Quell’interrogativo era sorto da giorni, da mesi, posso dire. Tra un da farsi e l’altro, mi ritrovavo a pensare di che colore fossero gli occhi di mia madre. E ciò che fino a quel momento era stato un mero pensiero interrogativo, quella notte si era trasformato in una dolorosa domanda carica di un tono d’accusa. Dunque, non sapevo di che colore fossero gli occhi di mia madre?
Essendo la prima di sette figlie, sin da piccola provavo a risolvere le mie difficoltà da sola, sono cresciuta in fretta passando per un’adolescenza breve.
Sempre al lato di mia madre, ho imparato a conoscerla. Decifravo il suo silenzio nei momenti difficili, così come sapevo riconoscere nei suoi gesti avvisaglie di possibili allegrie. In quel momento, intanto, mi riscoprivo piena di colpa perché non riuscivo a ricordare di che colore fossero i suoi occhi. Trovavo tutto molto strano, infatti mi ricordavo nitidamente di vari dettagli del suo corpo. Dell’unghia incarnita del mignolino del piede sinistro…della verruca che si perdeva nei suoi capelli crespi e belli…Un giorno, giocando a pettinare la bambola, gioia che nostra madre ci concedeva quando, mettendo da parte per un momento il lava-lava e stira-stira dei vestiti altrui, trasformandosi in una grande bambola nera per le figlie, scoprimmo una pallina annidata proprio sul suo cuoio capelluto. Pensammo che fosse una zecca. La mamma sonnecchiava e una delle mie sorelle, afflitta, volendo liberare la bambola-mamma da quella sofferenza, rimosse rapidamente la bestiolina. La mamma e noi ci mettemmo a ridere, ma a ridere e a ridere così tanto del nostro sbaglio. La mamma rise tanto fino a farsi uscire le lacrime. Ma di che colore erano i suoi occhi?
Io mi ricordavo anche di alcune storie di infanzia di mia madre. Lei era nata in un posto sperduto di Minas. Lì, i bambini andavano in giro nudi fino a quando erano grandicelli. Le bambine, invece, non appena cominciavano a spuntargli i seni, ricevevano vestiti prima dei bambini. A volte, le storie di infanzia di mia madre si confondevano con quelle della mia stessa infanzia. Mi ricordo che spesso, quando mia madre cucinava, dalla pentola non usciva nessun profumino. Era come se, lì, cucinasse soltanto il nostro disperato desiderio di alimento. Le fiammelle, sotto l’acqua solitaria che bolliva nella pentola morta di fame, sembravano prendere in giro il vuoto del nostro stomaco, ignorando le nostre bocche infantili in cui le lingue giocavano a salivare sogni di cibo. Ed era proprio in quei giorni di parco o di nessun alimento che lei giocava di più con le figlie. In quelle occasioni il gioco preferito era quello in cui la mamma era la Signora, la Regina. Si accomodava sul suo trono, un piccolo sgabello di legno. Felici, raccoglievamo fiori coltivati in un piccolo pezzo di terra che circondava la nostra baracca. I fiori, successivamente, erano solennemente disposti tra i suoi capelli, sulle braccia e il collo. Innanzi a lei facevamo reverenza alla Signora. Ci disponevamo stese a terra e chinavamo il capo innanzi alla Regina. Noi, principesse attorno a lei, cantavamo, danzavamo, sorridevamo. La mamma sapeva ridere soltanto in un modo triste e con un sorriso bagnato…Ma di che colore erano i suoi occhi? Io lo sapevo sin da allora che la mamma inventava questo e altri giochi per distrarre la nostra fame. E la nostra fame si distraeva.
A volte, verso la fine del pomeriggio, prima che la notte prendesse il sopravvento, si sedeva sull’uscio della porta e, insieme, restavamo a contemplare le arti delle nuvole in cielo. Alcune diventavano agnellini; altre, cagnolini; alcune, giganti addormentati, e poi c’erano quelle che erano soltanto nuvole, zucchero filato. La mamma allora stendeva il braccio e, arrivando fino al cielo, raccoglieva quella nuvola dividendola in pezzettini che infilava presto presto in bocca ad ognuna di noi. Doveva essere tutto molto rapido, prima che la nuvola si sciogliesse e con essa svanissero anche i nostri sogni. Ma di che colore erano gli occhi di mia madre?
Mi ricordo ancora della paura di mia madre nei giorni di forti piogge. Sul letto, stretta a noi, ci proteggeva col suo abbraccio. E con gli occhi inondati di lacrime balbettava preghiere a Santa Barbara, temendo che la nostra fragile baracca ci cadesse addosso. Non so se era il lamento-pianto di mia madre o se il rumore della pioggia… So solo che ogni cosa mi causava la sensazione che la nostra casa oscillasse al vento. In quei momenti gli occhi di mia madre si confondevano con gli occhi della natura. Pioveva, piangeva! Piangeva, pioveva! Allora, perché io non riuscivo a ricordarmi il colore dei suoi occhi? E quella notte la domanda continuava a tormentarmi. Erano anni che ero lontana dalla mia città natale. Ero uscita di casa alla ricerca di una migliore condizione di vita per me e per la mia famiglia: lei e le mie sorelle erano rimaste là. Ma io non mi ero mai dimenticata di mia madre. Riconoscevo la sua importanza nella mia vita, non solo la sua, ma anche delle mie zie e di tutte le donne della mia famiglia. Già a quell’epoca intonavo canti di lode anche per tutte le nostre donne di generazioni anteriori, che dall’Africa venivano arando la terra della vita con le loro stesse mani, parole e sangue. No, io non mi dimentico di queste Signore, nostre Yabás, depositarie di tanta saggezza. Ma di che colore erano gli occhi di mia madre?
E fu allora che, in preda alla disperazione, perché non ricordavo di che colore fossero gli occhi di mia madre, in quell’esatto momento decisi di lasciare tutto e il giorno dopo tornare alla città in cui ero nata. Avevo bisogno di cercare il volto di mia madre, fissare il mio sguardo nel suo, per non dimenticare mai più il colore dei suoi occhi.
Così feci. Tornai, afflitta, ma soddisfatta. Vivevo la sensazione di star compiendo un rituale in cui l’oblazione agli Orixá sarebbe dovuta scaturire dal colore degli occhi di mia madre.
E quando, dopo lunghi giorni di viaggio per arrivare alla mia terra, potei finalmente contemplare estasiata gli occhi di mia madre, sapete cosa vidi? Sapete cosa vidi?
Vidi soltanto lacrime e lacrime. Tuttavia, sorrideva felice. Ma erano così tante lacrime che mi chiesi se mia madre avesse in viso occhi o fiumi abbondanti. Il colore degli occhi di mia madre era colore d’occhi d’acqua. Le acque di Mamma Oxum! Fiumi calmi, ma profondi e ingannevoli per chi contempla la vita soltanto in superficie. Sì, le acque di Mamma Oxum.
Abbracciai mia madre, avvicinai il mio viso al suo chiedendo protezione. Sentii le sue lacrime mescolarsi alle mie.
Oggi, avendo già ritrovato il colore degli occhi di mia madre, provo a scoprire il colore degli occhi di mia figlia. Gioco a fare che gli occhi di una diventano lo specchio degli occhi dell’altra. E uno di questi giorni mi sono stupita con un gesto della mia bambina. Quando entrambe facevamo questo dolce gioco, mi ha toccato leggermente il viso guardandomi intensamente. E, mentre lanciava il suo sguardo nel mio, mi ha chiesto a bassa voce, ma così a bassa voce come se fosse una domanda solo per lei o come se stesse cercando e provando a trovare la rivelazione di un mistero o di un grande segreto. Ascoltai quando, sussurrando, mia figlia disse:
Tradução do original: EVARISTO, Conceição. Olhos de água. Rio de Janeiro: Fundação biblioteca nacional/Pallas Editora, 2016 (p. 10-12).
Occhi d’acqua
Una notte, anni fa, mi sono svegliata bruscamente e una strana domanda ha deflagrato dalla mia bocca. Di che colore erano gli occhi di mia madre? Stordita, ci ho messo un po’ a riconoscere la stanza della nuova casa in cui stavo vivendo, senza riuscire a ricordare come vi fossi arrivata. E quella domanda insistente martellava e martellava. Di che colore erano gli occhi di mia madre? Quell’interrogativo era sorto da giorni, da mesi, posso dire. Tra un da farsi e l’altro, mi ritrovavo a pensare di che colore fossero gli occhi di mia madre. E ciò che fino a quel momento era stato un mero pensiero interrogativo, quella notte si era trasformato in una dolorosa domanda carica di un tono d’accusa. Dunque, non sapevo di che colore fossero gli occhi di mia madre?
Essendo la prima di sette figlie, sin da piccola provavo a risolvere le mie difficoltà da sola, sono cresciuta in fretta passando per un’adolescenza breve.
Sempre al lato di mia madre, ho imparato a conoscerla. Decifravo il suo silenzio nei momenti difficili, così come sapevo riconoscere nei suoi gesti avvisaglie di possibili allegrie. In quel momento, intanto, mi riscoprivo piena di colpa perché non riuscivo a ricordare di che colore fossero i suoi occhi. Trovavo tutto molto strano, infatti mi ricordavo nitidamente di vari dettagli del suo corpo. Dell’unghia incarnita del mignolino del piede sinistro…della verruca che si perdeva nei suoi capelli crespi e belli…Un giorno, giocando a pettinare la bambola, gioia che nostra madre ci concedeva quando, mettendo da parte per un momento il lava-lava e stira-stira dei vestiti altrui, trasformandosi in una grande bambola nera per le figlie, scoprimmo una pallina annidata proprio sul suo cuoio capelluto. Pensammo che fosse una zecca. La mamma sonnecchiava e una delle mie sorelle, afflitta, volendo liberare la bambola-mamma da quella sofferenza, rimosse rapidamente la bestiolina. La mamma e noi ci mettemmo a ridere, ma a ridere e a ridere così tanto del nostro sbaglio. La mamma rise tanto fino a farsi uscire le lacrime. Ma di che colore erano i suoi occhi?
Io mi ricordavo anche di alcune storie di infanzia di mia madre. Lei era nata in un posto sperduto di Minas. Lì, i bambini andavano in giro nudi fino a quando erano grandicelli. Le bambine, invece, non appena cominciavano a spuntargli i seni, ricevevano vestiti prima dei bambini. A volte, le storie di infanzia di mia madre si confondevano con quelle della mia stessa infanzia. Mi ricordo che spesso, quando mia madre cucinava, dalla pentola non usciva nessun profumino. Era come se, lì, cucinasse soltanto il nostro disperato desiderio di alimento. Le fiammelle, sotto l’acqua solitaria che bolliva nella pentola morta di fame, sembravano prendere in giro il vuoto del nostro stomaco, ignorando le nostre bocche infantili in cui le lingue giocavano a salivare sogni di cibo. Ed era proprio in quei giorni di parco o di nessun alimento che lei giocava di più con le figlie. In quelle occasioni il gioco preferito era quello in cui la mamma era la Signora, la Regina. Si accomodava sul suo trono, un piccolo sgabello di legno. Felici, raccoglievamo fiori coltivati in un piccolo pezzo di terra che circondava la nostra baracca. I fiori, successivamente, erano solennemente disposti tra i suoi capelli, sulle braccia e il collo. Innanzi a lei facevamo reverenza alla Signora. Ci disponevamo stese a terra e chinavamo il capo innanzi alla Regina. Noi, principesse attorno a lei, cantavamo, danzavamo, sorridevamo. La mamma sapeva ridere soltanto in un modo triste e con un sorriso bagnato…Ma di che colore erano i suoi occhi? Io lo sapevo sin da allora che la mamma inventava questo e altri giochi per distrarre la nostra fame. E la nostra fame si distraeva.
A volte, verso la fine del pomeriggio, prima che la notte prendesse il sopravvento, si sedeva sull’uscio della porta e, insieme, restavamo a contemplare le arti delle nuvole in cielo. Alcune diventavano agnellini; altre, cagnolini; alcune, giganti addormentati, e poi c’erano quelle che erano soltanto nuvole, zucchero filato. La mamma allora stendeva il braccio e, arrivando fino al cielo, raccoglieva quella nuvola dividendola in pezzettini che infilava presto presto in bocca ad ognuna di noi. Doveva essere tutto molto rapido, prima che la nuvola si sciogliesse e con essa svanissero anche i nostri sogni. Ma di che colore erano gli occhi di mia madre?
Mi ricordo ancora della paura di mia madre nei giorni di forti piogge. Sul letto, stretta a noi, ci proteggeva col suo abbraccio. E con gli occhi inondati di lacrime balbettava preghiere a Santa Barbara, temendo che la nostra fragile baracca ci cadesse addosso. Non so se era il lamento-pianto di mia madre o se il rumore della pioggia… So solo che ogni cosa mi causava la sensazione che la nostra casa oscillasse al vento. In quei momenti gli occhi di mia madre si confondevano con gli occhi della natura. Pioveva, piangeva! Piangeva, pioveva! Allora, perché io non riuscivo a ricordarmi il colore dei suoi occhi? E quella notte la domanda continuava a tormentarmi. Erano anni che ero lontana dalla mia città natale. Ero uscita di casa alla ricerca di una migliore condizione di vita per me e per la mia famiglia: lei e le mie sorelle erano rimaste là. Ma io non mi ero mai dimenticata di mia madre. Riconoscevo la sua importanza nella mia vita, non solo la sua, ma anche delle mie zie e di tutte le donne della mia famiglia. Già a quell’epoca intonavo canti di lode anche per tutte le nostre donne di generazioni anteriori, che dall’Africa venivano arando la terra della vita con le loro stesse mani, parole e sangue. No, io non mi dimentico di queste Signore, nostre Yabás, depositarie di tanta saggezza. Ma di che colore erano gli occhi di mia madre?
E fu allora che, in preda alla disperazione, perché non ricordavo di che colore fossero gli occhi di mia madre, in quell’esatto momento decisi di lasciare tutto e il giorno dopo tornare alla città in cui ero nata. Avevo bisogno di cercare il volto di mia madre, fissare il mio sguardo nel suo, per non dimenticare mai più il colore dei suoi occhi.
Così feci. Tornai, afflitta, ma soddisfatta. Vivevo la sensazione di star compiendo un rituale in cui l’oblazione agli Orixá sarebbe dovuta scaturire dal colore degli occhi di mia madre.
E quando, dopo lunghi giorni di viaggio per arrivare alla mia terra, potei finalmente contemplare estasiata gli occhi di mia madre, sapete cosa vidi? Sapete cosa vidi?
Vidi soltanto lacrime e lacrime. Tuttavia, sorrideva felice. Ma erano così tante lacrime che mi chiesi se mia madre avesse in viso occhi o fiumi abbondanti. Il colore degli occhi di mia madre era colore d’occhi d’acqua. Le acque di Mamma Oxum! Fiumi calmi, ma profondi e ingannevoli per chi contempla la vita soltanto in superficie. Sì, le acque di Mamma Oxum.
Abbracciai mia madre, avvicinai il mio viso al suo chiedendo protezione. Sentii le sue lacrime mescolarsi alle mie.
Oggi, avendo già ritrovato il colore degli occhi di mia madre, provo a scoprire il colore degli occhi di mia figlia. Gioco a fare che gli occhi di una diventano lo specchio degli occhi dell’altra. E uno di questi giorni mi sono stupita con un gesto della mia bambina. Quando entrambe facevamo questo dolce gioco, mi ha toccato leggermente il viso guardandomi intensamente. E, mentre lanciava il suo sguardo nel mio, mi ha chiesto a bassa voce, ma così a bassa voce come se fosse una domanda solo per lei o come se stesse cercando e provando a trovare la rivelazione di un mistero o di un grande segreto. Ascoltai quando, sussurrando, mia figlia disse:
Texto retirado de: EVARISTO, Conceição. Olhos de água. Rio de Janeiro: Fundação biblioteca nacional/Pallas Editora, 2016 (p. 10-12).
Olhos d’água
Uma noite, há anos, acordei bruscamente e uma estranha pergunta explodiu de minha boca. De que cor eram os olhos de minha mãe? Atordoada, custei reconhecer o quarto da nova casa em que eu que estava morando e não conseguia me lembrar de como havia chegado até ali. E a insistente pergunta martelando, martelando. De que cor eram os olhos de minha mãe? Aquela indagação havia surgido há dias, há meses, posso dizer. Entre um afazer e outro, eu me pegava pensando de que cor seriam os olhos de minha mãe. E o que a princípio tinha sido um mero pensamento interrogativo, naquela noite se transformou em uma dolorosa pergunta carregada de um tom acusativo. Então eu não sabia de que cor eram os olhos de minha mãe?
Sendo a primeira de sete filhas, desde cedo busquei dar conta de minhas próprias dificuldades, cresci rápido, passando por uma breve adolescência. Sempre ao lado de minha mãe, aprendi a conhecê-la. Decifrava o seu silêncio nas horas de dificuldades, como também sabia reconhecer, em seus gestos, prenúncios de possíveis alegrias. Naquele momento, entretanto, me descobria cheia de culpa, por não recordar de que cor seriam os seus olhos. Eu achava tudo muito estranho, pois me lembrava nitidamente de vários detalhes do corpo dela. Da unha encravada do dedo mindinho do pé esquerdo… da verruga que se perdia no meio uma cabeleira crespa e bela… Um dia, brincando de pentear boneca, alegria que a mãe nos dava quando, deixando por uns momentos o lava-lava, o passa-passa das roupagens alheias e se tornava uma grande boneca negra para as filhas, descobrimos uma bolinha escondida bem no couro cabeludo dela. Pensamos que fosse carrapato. A mãe cochilava e uma de minhas irmãs, aflita, querendo livrar a boneca-mãe daquele padecer, puxou rápido o bichinho. A mãe e nós rimos e rimos e rimos de nosso engano. A mãe riu tanto, das lágrimas escorrerem. Mas de que cor eram os olhos dela?
Eu me lembrava também de algumas histórias da infância de minha mãe. Ela havia nascido em um lugar perdido no interior de Minas. Ali, as crianças andavam nuas até bem grandinhas. As meninas, assim que os seios começavam a brotar, ganhavam roupas antes dos meninos. Às vezes, as histórias da infância de minha mãe confundiam-se com as de minha própria infância. Lembro-me de que muitas vezes, quando a mãe cozinhava, da panela subia cheiro algum. Era como se cozinhasse, ali, apenas o nosso desesperado desejo de alimento. As labaredas, sob a água solitária que fervia na panela cheia de fome, pareciam debochar do vazio do nosso estômago,
ignorando nossas bocas infantis em que as línguas brincavam a salivar sonho de comida. E era justamente nesses dias de parco ou nenhum alimento que ela mais brincava com as filhas. Nessas ocasiões a brincadeira preferida era aquela em que a mãe era a Senhora, a Rainha. Ela se assentava em seu trono, um pequeno banquinho de madeira. Felizes, colhíamos flores cultivadas em um pequeno pedaço de terra que circundava o nosso barraco. As flores eram depois solenemente distribuídas por seus cabelos, braços e colo. E diante dela fazíamos reverências à Senhora. Postávamos deitadas no chão e batíamos cabeça para a Rainha. Nós, princesas, em volta dela, cantávamos, dançávamos, sorríamos. A mãe só ria de uma maneira triste e com um sorriso molhado… Mas de que cor eram os olhos de minha mãe? Eu sabia, desde
aquela época, que a mãe inventava esse e outros jogos para distrair a nossa fome. E a nossa fome se distraía.
Às vezes, no final da tarde, antes que a noite tomasse conta do tempo, ela se sentava na soleira da porta e, juntas, ficávamos contemplando as artes das nuvens no céu. Umas viravam carneirinhos; outras, cachorrinhos; algumas, gigantes adormecidos, e havia aquelas que eram só nuvens, algodão doce. A mãe, então, espichava o braço, que ia até o céu, colhia aquela nuvem, repartia em pedacinhos e enfiava rápido na boca de cada uma de nós. Tudo tinha de ser muito rápido, antes que a nuvem derretesse e com ela os nossos sonhos se esvaecessem também. Mas de que cor eram os olhos de minha mãe?
Lembro-me ainda do temor de minha mãe nos dias de fortes chuvas. Em cima da cama, agarrada a nós, ela nos protegia com seu abraço. E com os olhos alagados de prantos balbuciava rezas a Santa Bárbara, temendo que o nosso frágil barraco desabasse sobre nós. E eu não sei se o lamento-pranto de minha mãe, se o barulho da chuva… Sei que tudo me causava a sensação de que a nossa casa balançava ao vento. Nesses momentos os olhos de minha mãe se confundiam com os olhos da natureza. Chovia, chorava! Chorava, chovia! Então, por que eu não conseguia lembrar a cor dos olhos dela? E naquela noite a pergunta continuava me atormentando. Havia anos que eu estava fora de minha cidade natal. Saíra de minha casa em busca de
melhor condição de vida para mim e para minha família: ela e minhas irmãs tinham ficado para trás. Mas eu nunca esquecera a minha mãe. Reconhecia a importância dela na minha vida, não só dela, mas de minhas tias e de todas as mulheres de minha família. E também, já naquela época, eu entoava cantos de louvor a todas nossas ancestrais, que desde a África vinham arando a terra da vida com as suas próprias mãos, palavras e sangue. Não, eu não esqueço essas Senhoras, nossas Yabás, donas de tantas sabedorias. Mas de que cor eram os olhos de minha mãe?
E foi então que, tomada pelo desespero por não me lembrar de que cor seriam os olhos de minha mãe, naquele momento resolvi deixar tudo e, no dia seguinte, voltar à cidade em que nasci. Eu precisava buscar o rosto de minha mãe, fixar o meu olhar no dela, para nunca mais esquecer a cor de seus olhos.
Assim fiz. Voltei, aflita, mas satisfeita. Vivia a sensação de estar cumprindo um ritual, em que a oferenda aos Orixás deveria ser descoberta da cor dos olhos de minha mãe.
E quando, após longos dias de viagem para chegar à minha terra, pude contemplar extasiada os olhos de minha mãe, sabem o que vi? Sabem o que vi?
Vi só lágrimas e lágrimas. Entretanto, ela sorria feliz. Mas eram tantas lágrimas, que eu me perguntei se minha mãe tinha olhos ou rios caudalosos sobre a face. E só então compreendi. Minha mãe trazia, serenamente em si, águas correntezas. Por isso, prantos e prantos a enfeitar o seu rosto. A cor dos olhos de minha mãe era cor de olhos d’água. Águas de Mamãe Oxum! Rios calmos, mas profundos e enganosos para quem contempla a vida apenas pela superfície. Sim, águas de Mamãe Oxum.
Abracei a mãe, encostei meu rosto no dela e pedi proteção. Senti as lágrimas delas se misturarem às minhas.
Hoje, quando já alcancei a cor dos olhos de minha mãe, tento descobrir a cor dos olhos de minha filha. Faço a brincadeira em que os olhos de uma se tornam o espelho para os olhos da outra. E um dia desses me surpreendi com um gesto de minha menina. Quando nós duas estávamos nesse doce jogo, ela tocou suavemente no meu rosto, me contemplando intensamente. E, enquanto jogava o olhar dela no meu, perguntou baixinho, mas tão baixinho, como se fosse uma pergunta para ela mesma, ou como estivesse buscando e encontrando a revelação de um mistério ou de um grande segredo. Eu escutei quando, sussurrando, minha filha falou:
— Mãe, qual é a cor tão úmida de seus olhos?
Texto retirado de: EVARISTO, Conceição. Olhos de água. Rio de Janeiro: Fundação biblioteca nacional/Pallas Editora, 2016 (p. 10-12).
Olhos d’água
Uma noite, há anos, acordei bruscamente e uma estranha pergunta explodiu de minha boca. De que cor eram os olhos de minha mãe? Atordoada, custei reconhecer o quarto da nova casa em que eu que estava morando e não conseguia me lembrar de como havia chegado até ali. E a insistente pergunta martelando, martelando. De que cor eram os olhos de minha mãe? Aquela indagação havia surgido há dias, há meses, posso dizer. Entre um afazer e outro, eu me pegava pensando de que cor seriam os olhos de minha mãe. E o que a princípio tinha sido um mero pensamento interrogativo, naquela noite se transformou em uma dolorosa pergunta carregada de um tom acusativo. Então eu não sabia de que cor eram os olhos de minha mãe?
Sendo a primeira de sete filhas, desde cedo busquei dar conta de minhas próprias dificuldades, cresci rápido, passando por uma breve adolescência. Sempre ao lado de minha mãe, aprendi a conhecê-la. Decifrava o seu silêncio nas horas de dificuldades, como também sabia reconhecer, em seus gestos, prenúncios de possíveis alegrias. Naquele momento, entretanto, me descobria cheia de culpa, por não recordar de que cor seriam os seus olhos. Eu achava tudo muito estranho, pois me lembrava nitidamente de vários detalhes do corpo dela. Da unha encravada do dedo mindinho do pé esquerdo… da verruga que se perdia no meio uma cabeleira crespa e bela… Um dia, brincando de pentear boneca, alegria que a mãe nos dava quando, deixando por uns momentos o lava-lava, o passa-passa das roupagens alheias e se tornava uma grande boneca negra para as filhas, descobrimos uma bolinha escondida bem no couro cabeludo dela. Pensamos que fosse carrapato. A mãe cochilava e uma de minhas irmãs, aflita, querendo livrar a boneca-mãe daquele padecer, puxou rápido o bichinho. A mãe e nós rimos e rimos e rimos de nosso engano. A mãe riu tanto, das lágrimas escorrerem. Mas de que cor eram os olhos dela?
Eu me lembrava também de algumas histórias da infância de minha mãe. Ela havia nascido em um lugar perdido no interior de Minas. Ali, as crianças andavam nuas até bem grandinhas. As meninas, assim que os seios começavam a brotar, ganhavam roupas antes dos meninos. Às vezes, as histórias da infância de minha mãe confundiam-se com as de minha própria infância. Lembro-me de que muitas vezes, quando a mãe cozinhava, da panela subia cheiro algum. Era como se cozinhasse, ali, apenas o nosso desesperado desejo de alimento. As labaredas, sob a água solitária que fervia na panela cheia de fome, pareciam debochar do vazio do nosso estômago,
ignorando nossas bocas infantis em que as línguas brincavam a salivar sonho de comida. E era justamente nesses dias de parco ou nenhum alimento que ela mais brincava com as filhas. Nessas ocasiões a brincadeira preferida era aquela em que a mãe era a Senhora, a Rainha. Ela se assentava em seu trono, um pequeno banquinho de madeira. Felizes, colhíamos flores cultivadas em um pequeno pedaço de terra que circundava o nosso barraco. As flores eram depois solenemente distribuídas por seus cabelos, braços e colo. E diante dela fazíamos reverências à Senhora. Postávamos deitadas no chão e batíamos cabeça para a Rainha. Nós, princesas, em volta dela, cantávamos, dançávamos, sorríamos. A mãe só ria de uma maneira triste e com um sorriso molhado… Mas de que cor eram os olhos de minha mãe? Eu sabia, desde
aquela época, que a mãe inventava esse e outros jogos para distrair a nossa fome. E a nossa fome se distraía.
Às vezes, no final da tarde, antes que a noite tomasse conta do tempo, ela se sentava na soleira da porta e, juntas, ficávamos contemplando as artes das nuvens no céu. Umas viravam carneirinhos; outras, cachorrinhos; algumas, gigantes adormecidos, e havia aquelas que eram só nuvens, algodão doce. A mãe, então, espichava o braço, que ia até o céu, colhia aquela nuvem, repartia em pedacinhos e enfiava rápido na boca de cada uma de nós. Tudo tinha de ser muito rápido, antes que a nuvem derretesse e com ela os nossos sonhos se esvaecessem também. Mas de que cor eram os olhos de minha mãe?
Lembro-me ainda do temor de minha mãe nos dias de fortes chuvas. Em cima da cama, agarrada a nós, ela nos protegia com seu abraço. E com os olhos alagados de prantos balbuciava rezas a Santa Bárbara, temendo que o nosso frágil barraco desabasse sobre nós. E eu não sei se o lamento-pranto de minha mãe, se o barulho da chuva… Sei que tudo me causava a sensação de que a nossa casa balançava ao vento. Nesses momentos os olhos de minha mãe se confundiam com os olhos da natureza. Chovia, chorava! Chorava, chovia! Então, por que eu não conseguia lembrar a cor dos olhos dela? E naquela noite a pergunta continuava me atormentando. Havia anos que eu estava fora de minha cidade natal. Saíra de minha casa em busca de
melhor condição de vida para mim e para minha família: ela e minhas irmãs tinham ficado para trás. Mas eu nunca esquecera a minha mãe. Reconhecia a importância dela na minha vida, não só dela, mas de minhas tias e de todas as mulheres de minha família. E também, já naquela época, eu entoava cantos de louvor a todas nossas ancestrais, que desde a África vinham arando a terra da vida com as suas próprias mãos, palavras e sangue. Não, eu não esqueço essas Senhoras, nossas Yabás, donas de tantas sabedorias. Mas de que cor eram os olhos de minha mãe?
E foi então que, tomada pelo desespero por não me lembrar de que cor seriam os olhos de minha mãe, naquele momento resolvi deixar tudo e, no dia seguinte, voltar à cidade em que nasci. Eu precisava buscar o rosto de minha mãe, fixar o meu olhar no dela, para nunca mais esquecer a cor de seus olhos.
Assim fiz. Voltei, aflita, mas satisfeita. Vivia a sensação de estar cumprindo um ritual, em que a oferenda aos Orixás deveria ser descoberta da cor dos olhos de minha mãe.
E quando, após longos dias de viagem para chegar à minha terra, pude contemplar extasiada os olhos de minha mãe, sabem o que vi? Sabem o que vi?
Vi só lágrimas e lágrimas. Entretanto, ela sorria feliz. Mas eram tantas lágrimas, que eu me perguntei se minha mãe tinha olhos ou rios caudalosos sobre a face. E só então compreendi. Minha mãe trazia, serenamente em si, águas correntezas. Por isso, prantos e prantos a enfeitar o seu rosto. A cor dos olhos de minha mãe era cor de olhos d’água. Águas de Mamãe Oxum! Rios calmos, mas profundos e enganosos para quem contempla a vida apenas pela superfície. Sim, águas de Mamãe Oxum.
Abracei a mãe, encostei meu rosto no dela e pedi proteção. Senti as lágrimas delas se misturarem às minhas.
Hoje, quando já alcancei a cor dos olhos de minha mãe, tento descobrir a cor dos olhos de minha filha. Faço a brincadeira em que os olhos de uma se tornam o espelho para os olhos da outra. E um dia desses me surpreendi com um gesto de minha menina. Quando nós duas estávamos nesse doce jogo, ela tocou suavemente no meu rosto, me contemplando intensamente. E, enquanto jogava o olhar dela no meu, perguntou baixinho, mas tão baixinho, como se fosse uma pergunta para ela mesma, ou como estivesse buscando e encontrando a revelação de um mistério ou de um grande segredo. Eu escutei quando, sussurrando, minha filha falou:
— Mãe, qual é a cor tão úmida de seus olhos?
Tradução do original: EVARISTO, Conceição. Olhos de água. Rio de Janeiro: Fundação biblioteca nacional/Pallas Editora, 2016 (p. 10-12).
Occhi d’acqua
Una notte, anni fa, mi sono svegliata bruscamente e una strana domanda ha deflagrato dalla mia bocca. Di che colore erano gli occhi di mia madre? Stordita, ci ho messo un po’ a riconoscere la stanza della nuova casa in cui stavo vivendo, senza riuscire a ricordare come vi fossi arrivata. E quella domanda insistente martellava e martellava. Di che colore erano gli occhi di mia madre? Quell’interrogativo era sorto da giorni, da mesi, posso dire. Tra un da farsi e l’altro, mi ritrovavo a pensare di che colore fossero gli occhi di mia madre. E ciò che fino a quel momento era stato un mero pensiero interrogativo, quella notte si era trasformato in una dolorosa domanda carica di un tono d’accusa. Dunque, non sapevo di che colore fossero gli occhi di mia madre?
Essendo la prima di sette figlie, sin da piccola provavo a risolvere le mie difficoltà da sola, sono cresciuta in fretta passando per un’adolescenza breve.
Sempre al lato di mia madre, ho imparato a conoscerla. Decifravo il suo silenzio nei momenti difficili, così come sapevo riconoscere nei suoi gesti avvisaglie di possibili allegrie. In quel momento, intanto, mi riscoprivo piena di colpa perché non riuscivo a ricordare di che colore fossero i suoi occhi. Trovavo tutto molto strano, infatti mi ricordavo nitidamente di vari dettagli del suo corpo. Dell’unghia incarnita del mignolino del piede sinistro…della verruca che si perdeva nei suoi capelli crespi e belli…Un giorno, giocando a pettinare la bambola, gioia che nostra madre ci concedeva quando, mettendo da parte per un momento il lava-lava e stira-stira dei vestiti altrui, trasformandosi in una grande bambola nera per le figlie, scoprimmo una pallina annidata proprio sul suo cuoio capelluto. Pensammo che fosse una zecca. La mamma sonnecchiava e una delle mie sorelle, afflitta, volendo liberare la bambola-mamma da quella sofferenza, rimosse rapidamente la bestiolina. La mamma e noi ci mettemmo a ridere, ma a ridere e a ridere così tanto del nostro sbaglio. La mamma rise tanto fino a farsi uscire le lacrime. Ma di che colore erano i suoi occhi?
Io mi ricordavo anche di alcune storie di infanzia di mia madre. Lei era nata in un posto sperduto di Minas. Lì, i bambini andavano in giro nudi fino a quando erano grandicelli. Le bambine, invece, non appena cominciavano a spuntargli i seni, ricevevano vestiti prima dei bambini. A volte, le storie di infanzia di mia madre si confondevano con quelle della mia stessa infanzia. Mi ricordo che spesso, quando mia madre cucinava, dalla pentola non usciva nessun profumino. Era come se, lì, cucinasse soltanto il nostro disperato desiderio di alimento. Le fiammelle, sotto l’acqua solitaria che bolliva nella pentola morta di fame, sembravano prendere in giro il vuoto del nostro stomaco, ignorando le nostre bocche infantili in cui le lingue giocavano a salivare sogni di cibo. Ed era proprio in quei giorni di parco o di nessun alimento che lei giocava di più con le figlie. In quelle occasioni il gioco preferito era quello in cui la mamma era la Signora, la Regina. Si accomodava sul suo trono, un piccolo sgabello di legno. Felici, raccoglievamo fiori coltivati in un piccolo pezzo di terra che circondava la nostra baracca. I fiori, successivamente, erano solennemente disposti tra i suoi capelli, sulle braccia e il collo. Innanzi a lei facevamo reverenza alla Signora. Ci disponevamo stese a terra e chinavamo il capo innanzi alla Regina. Noi, principesse attorno a lei, cantavamo, danzavamo, sorridevamo. La mamma sapeva ridere soltanto in un modo triste e con un sorriso bagnato…Ma di che colore erano i suoi occhi? Io lo sapevo sin da allora che la mamma inventava questo e altri giochi per distrarre la nostra fame. E la nostra fame si distraeva.
A volte, verso la fine del pomeriggio, prima che la notte prendesse il sopravvento, si sedeva sull’uscio della porta e, insieme, restavamo a contemplare le arti delle nuvole in cielo. Alcune diventavano agnellini; altre, cagnolini; alcune, giganti addormentati, e poi c’erano quelle che erano soltanto nuvole, zucchero filato. La mamma allora stendeva il braccio e, arrivando fino al cielo, raccoglieva quella nuvola dividendola in pezzettini che infilava presto presto in bocca ad ognuna di noi. Doveva essere tutto molto rapido, prima che la nuvola si sciogliesse e con essa svanissero anche i nostri sogni. Ma di che colore erano gli occhi di mia madre?
Mi ricordo ancora della paura di mia madre nei giorni di forti piogge. Sul letto, stretta a noi, ci proteggeva col suo abbraccio. E con gli occhi inondati di lacrime balbettava preghiere a Santa Barbara, temendo che la nostra fragile baracca ci cadesse addosso. Non so se era il lamento-pianto di mia madre o se il rumore della pioggia… So solo che ogni cosa mi causava la sensazione che la nostra casa oscillasse al vento. In quei momenti gli occhi di mia madre si confondevano con gli occhi della natura. Pioveva, piangeva! Piangeva, pioveva! Allora, perché io non riuscivo a ricordarmi il colore dei suoi occhi? E quella notte la domanda continuava a tormentarmi. Erano anni che ero lontana dalla mia città natale. Ero uscita di casa alla ricerca di una migliore condizione di vita per me e per la mia famiglia: lei e le mie sorelle erano rimaste là. Ma io non mi ero mai dimenticata di mia madre. Riconoscevo la sua importanza nella mia vita, non solo la sua, ma anche delle mie zie e di tutte le donne della mia famiglia. Già a quell’epoca intonavo canti di lode anche per tutte le nostre donne di generazioni anteriori, che dall’Africa venivano arando la terra della vita con le loro stesse mani, parole e sangue. No, io non mi dimentico di queste Signore, nostre Yabás, depositarie di tanta saggezza. Ma di che colore erano gli occhi di mia madre?
E fu allora che, in preda alla disperazione, perché non ricordavo di che colore fossero gli occhi di mia madre, in quell’esatto momento decisi di lasciare tutto e il giorno dopo tornare alla città in cui ero nata. Avevo bisogno di cercare il volto di mia madre, fissare il mio sguardo nel suo, per non dimenticare mai più il colore dei suoi occhi.
Così feci. Tornai, afflitta, ma soddisfatta. Vivevo la sensazione di star compiendo un rituale in cui l’oblazione agli Orixá sarebbe dovuta scaturire dal colore degli occhi di mia madre.
E quando, dopo lunghi giorni di viaggio per arrivare alla mia terra, potei finalmente contemplare estasiata gli occhi di mia madre, sapete cosa vidi? Sapete cosa vidi?
Vidi soltanto lacrime e lacrime. Tuttavia, sorrideva felice. Ma erano così tante lacrime che mi chiesi se mia madre avesse in viso occhi o fiumi abbondanti. Il colore degli occhi di mia madre era colore d’occhi d’acqua. Le acque di Mamma Oxum! Fiumi calmi, ma profondi e ingannevoli per chi contempla la vita soltanto in superficie. Sì, le acque di Mamma Oxum.
Abbracciai mia madre, avvicinai il mio viso al suo chiedendo protezione. Sentii le sue lacrime mescolarsi alle mie.
Oggi, avendo già ritrovato il colore degli occhi di mia madre, provo a scoprire il colore degli occhi di mia figlia. Gioco a fare che gli occhi di una diventano lo specchio degli occhi dell’altra. E uno di questi giorni mi sono stupita con un gesto della mia bambina. Quando entrambe facevamo questo dolce gioco, mi ha toccato leggermente il viso guardandomi intensamente. E, mentre lanciava il suo sguardo nel mio, mi ha chiesto a bassa voce, ma così a bassa voce come se fosse una domanda solo per lei o come se stesse cercando e provando a trovare la rivelazione di un mistero o di un grande segreto. Ascoltai quando, sussurrando, mia figlia disse: