Tradução italiana de um trecho retirado de Antigos e soltos, poemas da pasta rosa IN: Poética de Ana Cristina Cesar (São Paulo: 2013, originalmente escritos na década de 1970).
l’ampolla
Sabato sera. Il sapore sciagurato delle cose che non succedono. Sabato notte. Aria di attesa. Piove e Copacabana si illumina. L’Eneide da leggere. Mi fanno venire il bruciore di stomaco queste notti piene di Eneide da leggere. Ho dimenticato di prendere le medicine, ho letto le cime e i fondi[i] del Pasquim, hai già pensato se una figlia nostra si chiamasse Eneide? Mio Dio, già sto parlando di una figlia nostra! Che? Nostra cosa? Questa Rio de Janeiro è così completamente,[ii] davvero un luogo senza più nulla, qui la gente si siede nei sabati di pioggia notturna ad ascoltare Brahms e a godersi Virgilio! C’è stato un tempo in cui amavo Clarice Lispector con tutti i miei cuori, lo scrivevo proprio così al plurale in lettere infinite, aspettavo l’ora d’arrivo dell’uomo imprigionato nelle ore della strada, sedevo con sguardo indifferente nell’autobus lesbico passando per il terrapieno frontale;[iii] sempre i molti aggettivi a soffiarsi e le cediglie mutue. Avrei dato lezione di inglese a quelle persone che pagavano per vedere, avevo scritto paragrafi interi: Il tempo delle parole e dei motivi e dei ritmi tutt’altro che preferiti. Le telefonate alle due, la nostalgia di Londra, l’occhio tradendo, tradendo per i parchi con la coscienza di quelli che tradiscono e dopo razionalizzano, razionalizzano per sopportare gli orgasmi mai arrivati. Le parole, i motivi, i ritmi e la biblioteca, gli agonizzanti del sole, le ripetizioni, quanto mi ripeto, quanto mi ripeto, in accordi per principianti. Sono stanca delle interviste in cui non compaio mai, delle concordanze consumate e dei complementi che si susseguono alla mia stessa idea di tempo. Ho fatto un punto,[iv] sì, non ho mai più fatto una preghiera, né visto la televisione, ma un tempo arrivavano lettere, io mi mettevo ad aspettare le risposte (soltanto alcune risposte), un giorno, qual è stato esattamente il calendario senza vittorie, chi ha chiuso la porta sulle preposizioni superflue? Lo so, mamma, a te non piacciono nemmeno un po’ gli stili sovrapposti, e la mia voglia di jabuticaba è ancora più forte, il telefono è precipitato e anche la mia capacità di far punto, sarà la cosiddetta difficoltà a finire, di cui parla Hemingway (ma lui l’ha fatta finita, ha compiuto il gesto di finire!) o una mancanza di aria intrinseca che non permette riprese di fiato brusche o riposo, angeli custodi, occhiali metasimbolici? Non voglio dire nulla al di là del presente che la creazione non mi nega, non ha il benché minimo significato al di là dei giri che da in torno ai giri che dà intorno ai giri che dà in torno, perché mai un’enciclopedia, padre mio celeste? Si risolve il problema quando si comincia o si smette di parlare del problema? Che domanda così davvero[v] chiara, e tutto a causa di un punto interrogativo. Come sopperire il verbo sopperire. Devo usare o no raziocinio con la zeta nella traduzione di Giulio Cesare? Là ti chiamavano Caeser? Dammi uno di quegli shock, non scrivere per superstizione, racconta quella storiella del nano che ingannava gli — come era esattamente che aveva detto il dottore a cui non piacciono i neri? — incauti, l’ampolla si è rotta se qualcuno vuol fare l’analisi sintattica alle mie spalle, non dire incauti era il complemento oggetto, era un vocativo, vocativo per quelli che smettono di leggere si siedono al volante e dicono che non c’è verso, hanno voglia di dormire con una creatura accanto ma non hanno coraggio di confessarsi poco impersonali, fanno seratine senza spinelli di tanto in tanto e mi portano per strade alberate, un giro in bicicletta, l’inspiegabile soltanto a servizio dell’Autore, soltanto dell’autore, nessun anglicismo, Brahms nella notte nel tratto singolare circolare labirinti sabatici precipitazioni e questi plurali molto cari che mi astraggono al massimo e costruiscono la sola erezione trionfante di una testa dalla voce antipatica: detesto l’odore di crema, il gusto dell’oliva persa e la gallina a sproposito. Ho perso i brufoli e le pipe, i sospiri, le iniziali, la verruca, le mie radici. Non analizzatemi mai sintatticamente questi versi né tanto meno metteteci la nota della paura della morte nei giornali tra tanto fronzolismo, aflitto, chico buarque era molto interessante, io stessa l’ho ascoltato in un’epoca di dolci di fubá e di Copacabana. Oggi oltre. La lista divertente. Fino a che non arrivi il momento. Io non ho mai inventato. L’ampolla nella mia mano suona accordi di Brahms. Quando l’ampolla si chiude in ampolla giungiamo all’inizio della notte. Copabana al sabato, al secolo. Il mio lampadario trema languido, chiama il vecchio padre ibrido di emozione latente, chiama a tavola, chiama il vicino, chiama l’assaggio del dolce del vicino, chiama la cagliata conta i calici dimentica la lettera sotto alle altre lettere che il cassetto non si apra mai, chiama. Si chiude sull’ampolla, fiamma[vi] coniuga talami, divini, degenti, croci, ponti di croci, brodi voraci di croci, chiama le croci i ponti pronti sillogismi rime sacre cuori dei gesùi dii vitelli nella stalla. Ascoltate la parola classica. Installati dall’alto verso il basso. Le orazioni secolarizzate hanno visto spasmi grammaticali. Andate in panne. Nessuno vede nessuno viene oggi alla festa che nessuno vede. Omeopaticamente i drappeggi si inseriscono: trasalti, dolori di parti, senza che le nascite valgano molto i nuovi inizi intrepidi degli abbiano-detto.
Referência bibliográfica:
CESAR. Ana Cristina. Poética. Companhia das Letras: São Paulo, 2016 (p. 341-343).
[1] L’espressione brasiliana “de cabo a rabo” significa letteralmente “dalla testa alla coda” e viene usata come l’espressione idiomatica “da cima a fondo” per indicare qualcosa nella sua interezza. La ragione per cui ho deciso di tradurre “le cime e i fondi del Pasquim”, stravolgendo un’espressione idiomatica che si pluralizza e perde le preposizioni, è perché anche nell’originale, l’espressione idiomatica corrispondente risulta stravolta. L’autrice probabilmente per trasmettere l’idea di aver letto davvero tutto della rivista, usa una forma al plurale togliendo le preposizioni de…a, che servono per indicare una porzione circoscritta, un intervallo, nonostante nella locuzione dell’espressione idiomatica lo indichi nella sua interezza. Ho deciso dunque di lasciare questo senso di straniamento in traduzione che segna irrimediabilmente l’originale. A expressão brasileira “de cabo a rabo” significa literalmente “da cabeça até o rabo” para indicar algo na sua inteireza. A razão pela qual decidi traduzir “le cime e i fondi del Pasquim”, distorcendo uma expressão idiomática que se pluraliza e perde as preposições, é porque, também no original, a expressão idiomática correspondente resulta distorcida. A autora, provavelmente, para transmitir a ideia de ter lido realmente tudo da revista, usa uma forma plural tirando as preposições de…a que servem para indicar uma porção circunscrita, um intervalo, apesar de a locução da expressão idiomática indicar essa porção/intervalo na sua inteireza. Decidi, portanto, deixar esse sentido de estranhamento em tradução que marca irremediavelmente o original.
[2] La struttura italiana che sembra essere ellittica, unendo due frasi senza completare la prima riflette la struttura originale, si è preferito per ovvie ragioni stilistiche non rendere commestibile il testo dell’autrice brasiliana che si presenta opaco ed enigmatico in vari punti. A estrutura italiana que se apresenta elíptica, unindo duas orações sem completar porém a primeira, reflete a estrutura do original. Preferiu-se, por óbvias razões estilísticas, não tornar comestível o texto da autora brasileira que se apresenta opaco e enigmático em vários pontos.
[3] “Pelo aterro frontal” tradotto con “passando per il terrapieno frontale”, con l’aggiunta di “passando per” è una sequenza estremamente ambigua, infatti la preposizione “por” lascerebbe in aperto due possibilità interpretative. La prima possibilità indicherebbe che l’autobus va in direzione ad un terrapieno che si dispiega innanzi, cosa probabile giacché si tratta di Rio de Janeiro ed esiste di fatto una pista esclusiva per gli autobus che passa per l’Aterro del Flamengo. La seconda opzione indicherebbe invece che la passeggera entra per la parte davanti dell’autobus dove si trova anche il bigliettaio e che somiglia, poiché rialzato, ad un piccolo terrapieno. L’opzione “passando per” mantiene aperte le due possibilità anche nel testo italiano. Si riferisce inoltre che per l’interpretazione del periodo sono stati interpellati due lettori capacitati, anch’essi dubbiosi circa i possibili significati. “Pelo aterro frontal” traduzido com “passando per il terrapieno frontale”, com o acréscimo de “passando per” é uma sequência extremamente ambígua, pois a preposição “por” deixaria duas possibilidades em aberto. A primeira possibilidade indicaria que o ônibus vai em direção do aterro que se desenvolve frontalmente, o que, em se tratando do Rio de Janeiro, seria viável, já que existe de fato uma pista específica para os ônibus que passam pelo Aterro do Flamengo. A segunda opção poderia indicar que a passageira entra no ônibus pela parte dianteira onde fica o cobrador e que se parece, pelo levantamento, com uma pequena terraplenagem. A opção “passando per” deixa em aberto essas duas possibilidades também no texto italiano. Refere-se que para a interpretação da oração foram interpelados dois leitores capacitados que também ficaram na dúvida sobre os significados possíveis.
[4] L’autrice usa in portoghese l’espressione “fazer ponto” che letteralmente in italiano è “fare punto”, al posto de “pôr ponto” che in italiano sarebbe tradotto con la più usuale espressione “mettere un punto”. Si è preferito mantenere l’espressione più strana perché anche l’autrice pur avendo a sua disposizione l’espressione più convenzionale, ha optato per l’altra. In traduzione quindi l’espressione “fare un punto” o “far punto” devono intendersi come la capacità di mettere un punto, mettere fine ad una situazione. Il passaggio con quest’espressione diventa più comprensibile leggendo il paragrafo successivo in cui si cita Hemingwa morto suicida, così come la stessa autrice che si toglierà la vita a soli 31 anni.
A autora usa em português a expressão “fazer ponto” que literalmente em italiano é “fare punto”, no lugar de “pôr ponto” que em italiano se traduziria com a expressão mais usual “mettere un punto”. Preferiu-se manter a expressão mais estranha porque a autora, até tendo à sua disposição uma expressão mais convencional, optou pela outra. Em tradução, então, a expressão “fare un punto” ou “fare punto” tem que ser entendida como a capacidade de pôr ponto, ou seja, pôr fim a uma situação. A passagem com essa expressão, torna-se ainda mais compreensível lendo o parágrafo sucessivo em que se menciona o Hemingway morto suicida, assim como a própria autora, que infelizmente, tirará a sua vida com a jovem idade de 31 anos.
[5] La sequenza “così davvero”, che mette due avverbi di seguito (“così” in questo caso è usato nella funzione avverbiale) intensifica la portata del verbo riprendendo la costruzione per eccesso del testo originale “tão verdadeiramente”. A sequência “così davvero” intensifica a portada do verbo, retomando a construção por excesso do texto original “tão verdadeiramente”.
[6] Il gioco di parole della sequenza portoghese si perde nella traduzione italiana. La parola “chama” tradotta con “fiamma”, ha la stessa grafia della terza persona singolare del verbo “chamar” (chiamare), “chama” per l’appunto, e creerebbe così una connessione sonora per remissione con la parola omofona in posizione anteriore, creando anche un effetto labirinto nella lettura. Soltanto dopo una prima lettura si capisce che “chama” è il soggetto di “conjuga” e “alcovas” tradotto con “talami” il complemento oggetto, anche se frustra l’aspettativa di trovarvi un verbo all’infinito, che completerebbe adeguatamente il verbo “conjuga”. Il verbo conjuga assume così anche un altro significato oltre a quello grammaticale che è quello di unire. O jogo de palavras da sequência portuguesa se perde na tradução italiana. A palavra “chama” traduzida com “fiamma”, tem a mesma grafia da terceira pessoa do singular do verbo “chamar”, ou seja, “chama”, criando assim uma conexão sonora com a palavra homófona anteriormente usada, e gerando também um efeito labirinto na leitura. Somente depois de uma primeira leitura se entende que “chama” é o sujeito de “conjuga” e “alcovas” traduzido com “talami” é o objeto direto, ainda que não responda a expectativa de encontrar nesse lugar um verbo no infinitivo que complementaria adequadamente o verbo “conjuga”. O verbo “conjuga” assim assume também outro significado que é o de unir.
Trecho retirado de Antigos e soltos, poemas da pasta rosa IN: Poética de Ana Cristina Cesar (São Paulo: 2013, originalmente escritos na década de 1970).
Tardes de sábado. Que gosto desgraçado de não acontecer. Noites de sábado. Ar de espera. Chove e Copacabana se ilumina. A Eneida por ler. Me enchem de azia estas noites cheias de Eneida por ler. Esqueci de tomar o remédio, li os cabos e os rabos do Pasquim, já pensou uma filha nossa chamada, se chamando Eneida? Meu deus do céu, eu já estou falando em filha nossa! Que nossa o quê? Esse Rio de Janeiro está tão completamente, que lugar sem mais nada, aqui a gente senta sábado de chuva de noite para ouvir Brahms e curtir Virgílio! Havia um tempo, eu amava a Clarice Lispector de todos os meus corações, eu escrevia assim no plural nas cartas infinitas, esperava a hora da chegada do homem preso nas horas da rua, sentava com o olhar de indiferença no ônibus lésbico pelo aterro frontal; sempre os muitos adjetivos se assoando e as mútuas cedilhas. Iria dar aula de inglês para aquele pessoal que pagava para ver, escrevi parágrafos inteiros: O tempo das palavras e dos motivos e dos ritmos muito pra cá de favoritos. Os telefonemas às duas, as saudades de Londres, o olho traindo, traindo pelos parques com a consciência dos que traem e depois racionalizam, racionalizam para aguentar os orgasmos nunca vindos. As palavras, os motivos, os ritmos e a biblioteca, os agonizantes do sol, as repetições, como eu me repito, como eu me repito, em acordes noviços. Cansei das entrevistas em que eu nunca figuro, das concordâncias desgastadas e dos complementos que sucedem a minha própria ideia de tempo. Fiz um ponto sim, nunca mais fiz oração nem vi televisão, mas antigamente chegavam cartas, eu ficava esperando as respostas (só certas respostas), um dia, qual foi mesmo o calendário sem vitórias, quem fechou a porta em cima de preposições supérfluas? Eu sei, mamãe, você não gosta nada desses estilos superpostos, e meu desejo de jabuticaba é mais forte ainda, o telefone despencou, tem também a incapacidade de fazer ponto, será a tal dificuldade em acabar, de que falou Hemingway (mas ele acabou, ele fez gesto de acabar!) ou uma falta de ar intrínseca que não permite retomadas de fôlego bruscas ou repouso, anjos da guarda, óculos metassimbólicos? Não quero dizer nada além do presente que a criação não me nega, não tem a menor significação além das voltas que dá em torno das voltas que dá entorno das voltas que dá em torno, pra que uma enciclopédia, meu pai azul? Resolve-se o problema quando se começa ou se deixa de falar no problema? Que pergunta tão verdadeiramente clara, e tudo por causa de um ponto de interrogação. Como suprir o verbo suprir. Será ou não que devo usar o arrazoado com zê na tradução de Julius Caesar? Lá eles te chamavam de Caeser? me dá um choque daqueles, não escreva por superstição, conta aquela historinha do anão que enganava os — como foi mesmo que o doutor que não gosta de preto disse? — incautos, a ampola quebrou se alguém quiser fazer análise sintática às minhas custas, não diga incautos era objeto, era um vocativo, vocativo aos que deixam de ler, sentam ao volante e dizem que não tem jeito, têm vontade de dormir com a criatura ao lado mas não têm coragem de se confessar pouco impessoais, fazem festinhas sem maconha de vez em quando e me levam por ruas arborizadas, uma volta de bicicleta, o inexplicável a serviço do Autor somente, do autor somente, nenhum anglicismo, Brahms na noite no trecho singular circular labirintos sabáticos precipitações e estes plurais muito queridos que me abstraem ao máximo e constroem a única ereção triunfante de uma cabeça de voz chata: detesto o cheiro do creme, o gosto da azeitona perdida e a galinha fora de hora. Perdi as espinhas e os cachimbos, os suspiros, as iniciais, a verruga, minhas raízes. Nunca me analisem sintaticamente estes versos nem ponham a fusa do medo da morte nos jornais no meio de todo o touquismo, aflito, chico buarque era muito interessante, eu mesmo ouvi naquele tempo de bolo de fubá e Copacabana. Hoje além. A lista graciosa. Até chegar o momento. Eu nunca inventei. A ampola dentro da minha mão soa acorde de Brahms. Quando a ampola se fecha em ampola chegamos ao começo da noite. Copacabana de sábado, de século. Meu lustre tremula lânguido, chama o velho pai híbrido de emoção latente, chama para a mesa, chama o vizinho, chama a prova do bolo do vizinho, chama a coalhada conta os copos esquece a carta no fundo das outras cartas que a gaveta não se abra nunca, chama. Se fecha sobre a ampola, chama conjuga alcovas, divinos, doentes, cruzes, pontes de cruzes, sopas sôfregas de cruzes, chama as cruzes as pontes prontas silogismos rimas sagradas coração de jesuses deusos bezerros debaixo do curral. Ouçam a palavra clássica. Encurralados de cima a abaixo. As orações secularizadas viram espasmos gramaticais. Pifaram. Ninguém vê ninguém vem hoje ao baile que ninguém vê. Homeopaticamente os cortinados se inserem: entrepulos, dores de parto, sem que os nascimentos valham muito os recomeços intrépidos dos tenham-dito.
Referência bibliográfica:
CESAR. Ana Cristina. Poética. Companhia das Letras: São Paulo, 2016 (p. 341-343).
Trecho retirado de Antigos e soltos, poemas da pasta rosa IN: Poética de Ana Cristina Cesar (São Paulo: 2013, originalmente escritos na década de 1970).
Tardes de sábado. Que gosto desgraçado de não acontecer. Noites de sábado. Ar de espera. Chove e Copacabana se ilumina. A Eneida por ler. Me enchem de azia estas noites cheias de Eneida por ler. Esqueci de tomar o remédio, li os cabos e os rabos do Pasquim, já pensou uma filha nossa chamada, se chamando Eneida? Meu deus do céu, eu já estou falando em filha nossa! Que nossa o quê? Esse Rio de Janeiro está tão completamente, que lugar sem mais nada, aqui a gente senta sábado de chuva de noite para ouvir Brahms e curtir Virgílio! Havia um tempo, eu amava a Clarice Lispector de todos os meus corações, eu escrevia assim no plural nas cartas infinitas, esperava a hora da chegada do homem preso nas horas da rua, sentava com o olhar de indiferença no ônibus lésbico pelo aterro frontal; sempre os muitos adjetivos se assoando e as mútuas cedilhas. Iria dar aula de inglês para aquele pessoal que pagava para ver, escrevi parágrafos inteiros: O tempo das palavras e dos motivos e dos ritmos muito pra cá de favoritos. Os telefonemas às duas, as saudades de Londres, o olho traindo, traindo pelos parques com a consciência dos que traem e depois racionalizam, racionalizam para aguentar os orgasmos nunca vindos. As palavras, os motivos, os ritmos e a biblioteca, os agonizantes do sol, as repetições, como eu me repito, como eu me repito, em acordes noviços. Cansei das entrevistas em que eu nunca figuro, das concordâncias desgastadas e dos complementos que sucedem a minha própria ideia de tempo. Fiz um ponto sim, nunca mais fiz oração nem vi televisão, mas antigamente chegavam cartas, eu ficava esperando as respostas (só certas respostas), um dia, qual foi mesmo o calendário sem vitórias, quem fechou a porta em cima de preposições supérfluas? Eu sei, mamãe, você não gosta nada desses estilos superpostos, e meu desejo de jabuticaba é mais forte ainda, o telefone despencou, tem também a incapacidade de fazer ponto, será a tal dificuldade em acabar, de que falou Hemingway (mas ele acabou, ele fez gesto de acabar!) ou uma falta de ar intrínseca que não permite retomadas de fôlego bruscas ou repouso, anjos da guarda, óculos metassimbólicos? Não quero dizer nada além do presente que a criação não me nega, não tem a menor significação além das voltas que dá em torno das voltas que dá entorno das voltas que dá em torno, pra que uma enciclopédia, meu pai azul? Resolve-se o problema quando se começa ou se deixa de falar no problema? Que pergunta tão verdadeiramente clara, e tudo por causa de um ponto de interrogação. Como suprir o verbo suprir. Será ou não que devo usar o arrazoado com zê na tradução de Julius Caesar? Lá eles te chamavam de Caeser? me dá um choque daqueles, não escreva por superstição, conta aquela historinha do anão que enganava os — como foi mesmo que o doutor que não gosta de preto disse? — incautos, a ampola quebrou se alguém quiser fazer análise sintática às minhas custas, não diga incautos era objeto, era um vocativo, vocativo aos que deixam de ler, sentam ao volante e dizem que não tem jeito, têm vontade de dormir com a criatura ao lado mas não têm coragem de se confessar pouco impessoais, fazem festinhas sem maconha de vez em quando e me levam por ruas arborizadas, uma volta de bicicleta, o inexplicável a serviço do Autor somente, do autor somente, nenhum anglicismo, Brahms na noite no trecho singular circular labirintos sabáticos precipitações e estes plurais muito queridos que me abstraem ao máximo e constroem a única ereção triunfante de uma cabeça de voz chata: detesto o cheiro do creme, o gosto da azeitona perdida e a galinha fora de hora. Perdi as espinhas e os cachimbos, os suspiros, as iniciais, a verruga, minhas raízes. Nunca me analisem sintaticamente estes versos nem ponham a fusa do medo da morte nos jornais no meio de todo o touquismo, aflito, chico buarque era muito interessante, eu mesmo ouvi naquele tempo de bolo de fubá e Copacabana. Hoje além. A lista graciosa. Até chegar o momento. Eu nunca inventei. A ampola dentro da minha mão soa acorde de Brahms. Quando a ampola se fecha em ampola chegamos ao começo da noite. Copacabana de sábado, de século. Meu lustre tremula lânguido, chama o velho pai híbrido de emoção latente, chama para a mesa, chama o vizinho, chama a prova do bolo do vizinho, chama a coalhada conta os copos esquece a carta no fundo das outras cartas que a gaveta não se abra nunca, chama. Se fecha sobre a ampola, chama conjuga alcovas, divinos, doentes, cruzes, pontes de cruzes, sopas sôfregas de cruzes, chama as cruzes as pontes prontas silogismos rimas sagradas coração de jesuses deusos bezerros debaixo do curral. Ouçam a palavra clássica. Encurralados de cima a abaixo. As orações secularizadas viram espasmos gramaticais. Pifaram. Ninguém vê ninguém vem hoje ao baile que ninguém vê. Homeopaticamente os cortinados se inserem: entrepulos, dores de parto, sem que os nascimentos valham muito os recomeços intrépidos dos tenham-dito.
Referência bibliográfica:
CESAR. Ana Cristina. Poética. Companhia das Letras: São Paulo, 2016 (p. 341-343).
Tradução italiana de um trecho retirado de Antigos e soltos, poemas da pasta rosa IN: Poética de Ana Cristina Cesar (São Paulo: 2013, originalmente escritos na década de 1970).
l’ampolla
Sabato sera. Il sapore sciagurato delle cose che non succedono. Sabato notte. Aria di attesa. Piove e Copacabana si illumina. L’Eneide da leggere. Mi fanno venire il bruciore di stomaco queste notti piene di Eneide da leggere. Ho dimenticato di prendere le medicine, ho letto le cime e i fondi[i] del Pasquim, hai già pensato se una figlia nostra si chiamasse Eneide? Mio Dio, già sto parlando di una figlia nostra! Che? Nostra cosa? Questa Rio de Janeiro è così completamente,[ii] davvero un luogo senza più nulla, qui la gente si siede nei sabati di pioggia notturna ad ascoltare Brahms e a godersi Virgilio! C’è stato un tempo in cui amavo Clarice Lispector con tutti i miei cuori, lo scrivevo proprio così al plurale in lettere infinite, aspettavo l’ora d’arrivo dell’uomo imprigionato nelle ore della strada, sedevo con sguardo indifferente nell’autobus lesbico passando per il terrapieno frontale;[iii] sempre i molti aggettivi a soffiarsi e le cediglie mutue. Avrei dato lezione di inglese a quelle persone che pagavano per vedere, avevo scritto paragrafi interi: Il tempo delle parole e dei motivi e dei ritmi tutt’altro che preferiti. Le telefonate alle due, la nostalgia di Londra, l’occhio tradendo, tradendo per i parchi con la coscienza di quelli che tradiscono e dopo razionalizzano, razionalizzano per sopportare gli orgasmi mai arrivati. Le parole, i motivi, i ritmi e la biblioteca, gli agonizzanti del sole, le ripetizioni, quanto mi ripeto, quanto mi ripeto, in accordi per principianti. Sono stanca delle interviste in cui non compaio mai, delle concordanze consumate e dei complementi che si susseguono alla mia stessa idea di tempo. Ho fatto un punto,[iv] sì, non ho mai più fatto una preghiera, né visto la televisione, ma un tempo arrivavano lettere, io mi mettevo ad aspettare le risposte (soltanto alcune risposte), un giorno, qual è stato esattamente il calendario senza vittorie, chi ha chiuso la porta sulle preposizioni superflue? Lo so, mamma, a te non piacciono nemmeno un po’ gli stili sovrapposti, e la mia voglia di jabuticaba è ancora più forte, il telefono è precipitato e anche la mia capacità di far punto, sarà la cosiddetta difficoltà a finire, di cui parla Hemingway (ma lui l’ha fatta finita, ha compiuto il gesto di finire!) o una mancanza di aria intrinseca che non permette riprese di fiato brusche o riposo, angeli custodi, occhiali metasimbolici? Non voglio dire nulla al di là del presente che la creazione non mi nega, non ha il benché minimo significato al di là dei giri che da in torno ai giri che dà intorno ai giri che dà in torno, perché mai un’enciclopedia, padre mio celeste? Si risolve il problema quando si comincia o si smette di parlare del problema? Che domanda così davvero[v] chiara, e tutto a causa di un punto interrogativo. Come sopperire il verbo sopperire. Devo usare o no raziocinio con la zeta nella traduzione di Giulio Cesare? Là ti chiamavano Caeser? Dammi uno di quegli shock, non scrivere per superstizione, racconta quella storiella del nano che ingannava gli — come era esattamente che aveva detto il dottore a cui non piacciono i neri? — incauti, l’ampolla si è rotta se qualcuno vuol fare l’analisi sintattica alle mie spalle, non dire incauti era il complemento oggetto, era un vocativo, vocativo per quelli che smettono di leggere si siedono al volante e dicono che non c’è verso, hanno voglia di dormire con una creatura accanto ma non hanno coraggio di confessarsi poco impersonali, fanno seratine senza spinelli di tanto in tanto e mi portano per strade alberate, un giro in bicicletta, l’inspiegabile soltanto a servizio dell’Autore, soltanto dell’autore, nessun anglicismo, Brahms nella notte nel tratto singolare circolare labirinti sabatici precipitazioni e questi plurali molto cari che mi astraggono al massimo e costruiscono la sola erezione trionfante di una testa dalla voce antipatica: detesto l’odore di crema, il gusto dell’oliva persa e la gallina a sproposito. Ho perso i brufoli e le pipe, i sospiri, le iniziali, la verruca, le mie radici. Non analizzatemi mai sintatticamente questi versi né tanto meno metteteci la nota della paura della morte nei giornali tra tanto fronzolismo, aflitto, chico buarque era molto interessante, io stessa l’ho ascoltato in un’epoca di dolci di fubá e di Copacabana. Oggi oltre. La lista divertente. Fino a che non arrivi il momento. Io non ho mai inventato. L’ampolla nella mia mano suona accordi di Brahms. Quando l’ampolla si chiude in ampolla giungiamo all’inizio della notte. Copabana al sabato, al secolo. Il mio lampadario trema languido, chiama il vecchio padre ibrido di emozione latente, chiama a tavola, chiama il vicino, chiama l’assaggio del dolce del vicino, chiama la cagliata conta i calici dimentica la lettera sotto alle altre lettere che il cassetto non si apra mai, chiama. Si chiude sull’ampolla, fiamma[vi] coniuga talami, divini, degenti, croci, ponti di croci, brodi voraci di croci, chiama le croci i ponti pronti sillogismi rime sacre cuori dei gesùi dii vitelli nella stalla. Ascoltate la parola classica. Installati dall’alto verso il basso. Le orazioni secolarizzate hanno visto spasmi grammaticali. Andate in panne. Nessuno vede nessuno viene oggi alla festa che nessuno vede. Omeopaticamente i drappeggi si inseriscono: trasalti, dolori di parti, senza che le nascite valgano molto i nuovi inizi intrepidi degli abbiano-detto.
Referência bibliográfica:
CESAR. Ana Cristina. Poética. Companhia das Letras: São Paulo, 2016 (p. 341-343).
[1] L’espressione brasiliana “de cabo a rabo” significa letteralmente “dalla testa alla coda” e viene usata come l’espressione idiomatica “da cima a fondo” per indicare qualcosa nella sua interezza. La ragione per cui ho deciso di tradurre “le cime e i fondi del Pasquim”, stravolgendo un’espressione idiomatica che si pluralizza e perde le preposizioni, è perché anche nell’originale, l’espressione idiomatica corrispondente risulta stravolta. L’autrice probabilmente per trasmettere l’idea di aver letto davvero tutto della rivista, usa una forma al plurale togliendo le preposizioni de…a, che servono per indicare una porzione circoscritta, un intervallo, nonostante nella locuzione dell’espressione idiomatica lo indichi nella sua interezza. Ho deciso dunque di lasciare questo senso di straniamento in traduzione che segna irrimediabilmente l’originale. A expressão brasileira “de cabo a rabo” significa literalmente “da cabeça até o rabo” para indicar algo na sua inteireza. A razão pela qual decidi traduzir “le cime e i fondi del Pasquim”, distorcendo uma expressão idiomática que se pluraliza e perde as preposições, é porque, também no original, a expressão idiomática correspondente resulta distorcida. A autora, provavelmente, para transmitir a ideia de ter lido realmente tudo da revista, usa uma forma plural tirando as preposições de…a que servem para indicar uma porção circunscrita, um intervalo, apesar de a locução da expressão idiomática indicar essa porção/intervalo na sua inteireza. Decidi, portanto, deixar esse sentido de estranhamento em tradução que marca irremediavelmente o original.
[2] La struttura italiana che sembra essere ellittica, unendo due frasi senza completare la prima riflette la struttura originale, si è preferito per ovvie ragioni stilistiche non rendere commestibile il testo dell’autrice brasiliana che si presenta opaco ed enigmatico in vari punti. A estrutura italiana que se apresenta elíptica, unindo duas orações sem completar porém a primeira, reflete a estrutura do original. Preferiu-se, por óbvias razões estilísticas, não tornar comestível o texto da autora brasileira que se apresenta opaco e enigmático em vários pontos.
[3] “Pelo aterro frontal” tradotto con “passando per il terrapieno frontale”, con l’aggiunta di “passando per” è una sequenza estremamente ambigua, infatti la preposizione “por” lascerebbe in aperto due possibilità interpretative. La prima possibilità indicherebbe che l’autobus va in direzione ad un terrapieno che si dispiega innanzi, cosa probabile giacché si tratta di Rio de Janeiro ed esiste di fatto una pista esclusiva per gli autobus che passa per l’Aterro del Flamengo. La seconda opzione indicherebbe invece che la passeggera entra per la parte davanti dell’autobus dove si trova anche il bigliettaio e che somiglia, poiché rialzato, ad un piccolo terrapieno. L’opzione “passando per” mantiene aperte le due possibilità anche nel testo italiano. Si riferisce inoltre che per l’interpretazione del periodo sono stati interpellati due lettori capacitati, anch’essi dubbiosi circa i possibili significati. “Pelo aterro frontal” traduzido com “passando per il terrapieno frontale”, com o acréscimo de “passando per” é uma sequência extremamente ambígua, pois a preposição “por” deixaria duas possibilidades em aberto. A primeira possibilidade indicaria que o ônibus vai em direção do aterro que se desenvolve frontalmente, o que, em se tratando do Rio de Janeiro, seria viável, já que existe de fato uma pista específica para os ônibus que passam pelo Aterro do Flamengo. A segunda opção poderia indicar que a passageira entra no ônibus pela parte dianteira onde fica o cobrador e que se parece, pelo levantamento, com uma pequena terraplenagem. A opção “passando per” deixa em aberto essas duas possibilidades também no texto italiano. Refere-se que para a interpretação da oração foram interpelados dois leitores capacitados que também ficaram na dúvida sobre os significados possíveis.
[4] L’autrice usa in portoghese l’espressione “fazer ponto” che letteralmente in italiano è “fare punto”, al posto de “pôr ponto” che in italiano sarebbe tradotto con la più usuale espressione “mettere un punto”. Si è preferito mantenere l’espressione più strana perché anche l’autrice pur avendo a sua disposizione l’espressione più convenzionale, ha optato per l’altra. In traduzione quindi l’espressione “fare un punto” o “far punto” devono intendersi come la capacità di mettere un punto, mettere fine ad una situazione. Il passaggio con quest’espressione diventa più comprensibile leggendo il paragrafo successivo in cui si cita Hemingwa morto suicida, così come la stessa autrice che si toglierà la vita a soli 31 anni.
A autora usa em português a expressão “fazer ponto” que literalmente em italiano é “fare punto”, no lugar de “pôr ponto” que em italiano se traduziria com a expressão mais usual “mettere un punto”. Preferiu-se manter a expressão mais estranha porque a autora, até tendo à sua disposição uma expressão mais convencional, optou pela outra. Em tradução, então, a expressão “fare un punto” ou “fare punto” tem que ser entendida como a capacidade de pôr ponto, ou seja, pôr fim a uma situação. A passagem com essa expressão, torna-se ainda mais compreensível lendo o parágrafo sucessivo em que se menciona o Hemingway morto suicida, assim como a própria autora, que infelizmente, tirará a sua vida com a jovem idade de 31 anos.
[5] La sequenza “così davvero”, che mette due avverbi di seguito (“così” in questo caso è usato nella funzione avverbiale) intensifica la portata del verbo riprendendo la costruzione per eccesso del testo originale “tão verdadeiramente”. A sequência “così davvero” intensifica a portada do verbo, retomando a construção por excesso do texto original “tão verdadeiramente”.
[6] Il gioco di parole della sequenza portoghese si perde nella traduzione italiana. La parola “chama” tradotta con “fiamma”, ha la stessa grafia della terza persona singolare del verbo “chamar” (chiamare), “chama” per l’appunto, e creerebbe così una connessione sonora per remissione con la parola omofona in posizione anteriore, creando anche un effetto labirinto nella lettura. Soltanto dopo una prima lettura si capisce che “chama” è il soggetto di “conjuga” e “alcovas” tradotto con “talami” il complemento oggetto, anche se frustra l’aspettativa di trovarvi un verbo all’infinito, che completerebbe adeguatamente il verbo “conjuga”. Il verbo conjuga assume così anche un altro significato oltre a quello grammaticale che è quello di unire. O jogo de palavras da sequência portuguesa se perde na tradução italiana. A palavra “chama” traduzida com “fiamma”, tem a mesma grafia da terceira pessoa do singular do verbo “chamar”, ou seja, “chama”, criando assim uma conexão sonora com a palavra homófona anteriormente usada, e gerando também um efeito labirinto na leitura. Somente depois de uma primeira leitura se entende que “chama” é o sujeito de “conjuga” e “alcovas” traduzido com “talami” é o objeto direto, ainda que não responda a expectativa de encontrar nesse lugar um verbo no infinitivo que complementaria adequadamente o verbo “conjuga”. O verbo “conjuga” assim assume também outro significado que é o de unir.
Tradução italiana de um trecho retirado de Antigos e soltos, poemas da pasta rosa IN: Poética de Ana Cristina Cesar (São Paulo: 2013, originalmente escritos na década de 1970).
l’ampolla
Sabato sera. Il sapore sciagurato delle cose che non succedono. Sabato notte. Aria di attesa. Piove e Copacabana si illumina. L’Eneide da leggere. Mi fanno venire il bruciore di stomaco queste notti piene di Eneide da leggere. Ho dimenticato di prendere le medicine, ho letto le cime e i fondi[i] del Pasquim, hai già pensato se una figlia nostra si chiamasse Eneide? Mio Dio, già sto parlando di una figlia nostra! Che? Nostra cosa? Questa Rio de Janeiro è così completamente,[ii] davvero un luogo senza più nulla, qui la gente si siede nei sabati di pioggia notturna ad ascoltare Brahms e a godersi Virgilio! C’è stato un tempo in cui amavo Clarice Lispector con tutti i miei cuori, lo scrivevo proprio così al plurale in lettere infinite, aspettavo l’ora d’arrivo dell’uomo imprigionato nelle ore della strada, sedevo con sguardo indifferente nell’autobus lesbico passando per il terrapieno frontale;[iii] sempre i molti aggettivi a soffiarsi e le cediglie mutue. Avrei dato lezione di inglese a quelle persone che pagavano per vedere, avevo scritto paragrafi interi: Il tempo delle parole e dei motivi e dei ritmi tutt’altro che preferiti. Le telefonate alle due, la nostalgia di Londra, l’occhio tradendo, tradendo per i parchi con la coscienza di quelli che tradiscono e dopo razionalizzano, razionalizzano per sopportare gli orgasmi mai arrivati. Le parole, i motivi, i ritmi e la biblioteca, gli agonizzanti del sole, le ripetizioni, quanto mi ripeto, quanto mi ripeto, in accordi per principianti. Sono stanca delle interviste in cui non compaio mai, delle concordanze consumate e dei complementi che si susseguono alla mia stessa idea di tempo. Ho fatto un punto,[iv] sì, non ho mai più fatto una preghiera, né visto la televisione, ma un tempo arrivavano lettere, io mi mettevo ad aspettare le risposte (soltanto alcune risposte), un giorno, qual è stato esattamente il calendario senza vittorie, chi ha chiuso la porta sulle preposizioni superflue? Lo so, mamma, a te non piacciono nemmeno un po’ gli stili sovrapposti, e la mia voglia di jabuticaba è ancora più forte, il telefono è precipitato e anche la mia capacità di far punto, sarà la cosiddetta difficoltà a finire, di cui parla Hemingway (ma lui l’ha fatta finita, ha compiuto il gesto di finire!) o una mancanza di aria intrinseca che non permette riprese di fiato brusche o riposo, angeli custodi, occhiali metasimbolici? Non voglio dire nulla al di là del presente che la creazione non mi nega, non ha il benché minimo significato al di là dei giri che da in torno ai giri che dà intorno ai giri che dà in torno, perché mai un’enciclopedia, padre mio celeste? Si risolve il problema quando si comincia o si smette di parlare del problema? Che domanda così davvero[v] chiara, e tutto a causa di un punto interrogativo. Come sopperire il verbo sopperire. Devo usare o no raziocinio con la zeta nella traduzione di Giulio Cesare? Là ti chiamavano Caeser? Dammi uno di quegli shock, non scrivere per superstizione, racconta quella storiella del nano che ingannava gli — come era esattamente che aveva detto il dottore a cui non piacciono i neri? — incauti, l’ampolla si è rotta se qualcuno vuol fare l’analisi sintattica alle mie spalle, non dire incauti era il complemento oggetto, era un vocativo, vocativo per quelli che smettono di leggere si siedono al volante e dicono che non c’è verso, hanno voglia di dormire con una creatura accanto ma non hanno coraggio di confessarsi poco impersonali, fanno seratine senza spinelli di tanto in tanto e mi portano per strade alberate, un giro in bicicletta, l’inspiegabile soltanto a servizio dell’Autore, soltanto dell’autore, nessun anglicismo, Brahms nella notte nel tratto singolare circolare labirinti sabatici precipitazioni e questi plurali molto cari che mi astraggono al massimo e costruiscono la sola erezione trionfante di una testa dalla voce antipatica: detesto l’odore di crema, il gusto dell’oliva persa e la gallina a sproposito. Ho perso i brufoli e le pipe, i sospiri, le iniziali, la verruca, le mie radici. Non analizzatemi mai sintatticamente questi versi né tanto meno metteteci la nota della paura della morte nei giornali tra tanto fronzolismo, aflitto, chico buarque era molto interessante, io stessa l’ho ascoltato in un’epoca di dolci di fubá e di Copacabana. Oggi oltre. La lista divertente. Fino a che non arrivi il momento. Io non ho mai inventato. L’ampolla nella mia mano suona accordi di Brahms. Quando l’ampolla si chiude in ampolla giungiamo all’inizio della notte. Copabana al sabato, al secolo. Il mio lampadario trema languido, chiama il vecchio padre ibrido di emozione latente, chiama a tavola, chiama il vicino, chiama l’assaggio del dolce del vicino, chiama la cagliata conta i calici dimentica la lettera sotto alle altre lettere che il cassetto non si apra mai, chiama. Si chiude sull’ampolla, fiamma[vi] coniuga talami, divini, degenti, croci, ponti di croci, brodi voraci di croci, chiama le croci i ponti pronti sillogismi rime sacre cuori dei gesùi dii vitelli nella stalla. Ascoltate la parola classica. Installati dall’alto verso il basso. Le orazioni secolarizzate hanno visto spasmi grammaticali. Andate in panne. Nessuno vede nessuno viene oggi alla festa che nessuno vede. Omeopaticamente i drappeggi si inseriscono: trasalti, dolori di parti, senza che le nascite valgano molto i nuovi inizi intrepidi degli abbiano-detto.
Referência bibliográfica:
CESAR. Ana Cristina. Poética. Companhia das Letras: São Paulo, 2016 (p. 341-343).
[1] L’espressione brasiliana “de cabo a rabo” significa letteralmente “dalla testa alla coda” e viene usata come l’espressione idiomatica “da cima a fondo” per indicare qualcosa nella sua interezza. La ragione per cui ho deciso di tradurre “le cime e i fondi del Pasquim”, stravolgendo un’espressione idiomatica che si pluralizza e perde le preposizioni, è perché anche nell’originale, l’espressione idiomatica corrispondente risulta stravolta. L’autrice probabilmente per trasmettere l’idea di aver letto davvero tutto della rivista, usa una forma al plurale togliendo le preposizioni de…a, che servono per indicare una porzione circoscritta, un intervallo, nonostante nella locuzione dell’espressione idiomatica lo indichi nella sua interezza. Ho deciso dunque di lasciare questo senso di straniamento in traduzione che segna irrimediabilmente l’originale. A expressão brasileira “de cabo a rabo” significa literalmente “da cabeça até o rabo” para indicar algo na sua inteireza. A razão pela qual decidi traduzir “le cime e i fondi del Pasquim”, distorcendo uma expressão idiomática que se pluraliza e perde as preposições, é porque, também no original, a expressão idiomática correspondente resulta distorcida. A autora, provavelmente, para transmitir a ideia de ter lido realmente tudo da revista, usa uma forma plural tirando as preposições de…a que servem para indicar uma porção circunscrita, um intervalo, apesar de a locução da expressão idiomática indicar essa porção/intervalo na sua inteireza. Decidi, portanto, deixar esse sentido de estranhamento em tradução que marca irremediavelmente o original.
[2] La struttura italiana che sembra essere ellittica, unendo due frasi senza completare la prima riflette la struttura originale, si è preferito per ovvie ragioni stilistiche non rendere commestibile il testo dell’autrice brasiliana che si presenta opaco ed enigmatico in vari punti. A estrutura italiana que se apresenta elíptica, unindo duas orações sem completar porém a primeira, reflete a estrutura do original. Preferiu-se, por óbvias razões estilísticas, não tornar comestível o texto da autora brasileira que se apresenta opaco e enigmático em vários pontos.
[3] “Pelo aterro frontal” tradotto con “passando per il terrapieno frontale”, con l’aggiunta di “passando per” è una sequenza estremamente ambigua, infatti la preposizione “por” lascerebbe in aperto due possibilità interpretative. La prima possibilità indicherebbe che l’autobus va in direzione ad un terrapieno che si dispiega innanzi, cosa probabile giacché si tratta di Rio de Janeiro ed esiste di fatto una pista esclusiva per gli autobus che passa per l’Aterro del Flamengo. La seconda opzione indicherebbe invece che la passeggera entra per la parte davanti dell’autobus dove si trova anche il bigliettaio e che somiglia, poiché rialzato, ad un piccolo terrapieno. L’opzione “passando per” mantiene aperte le due possibilità anche nel testo italiano. Si riferisce inoltre che per l’interpretazione del periodo sono stati interpellati due lettori capacitati, anch’essi dubbiosi circa i possibili significati. “Pelo aterro frontal” traduzido com “passando per il terrapieno frontale”, com o acréscimo de “passando per” é uma sequência extremamente ambígua, pois a preposição “por” deixaria duas possibilidades em aberto. A primeira possibilidade indicaria que o ônibus vai em direção do aterro que se desenvolve frontalmente, o que, em se tratando do Rio de Janeiro, seria viável, já que existe de fato uma pista específica para os ônibus que passam pelo Aterro do Flamengo. A segunda opção poderia indicar que a passageira entra no ônibus pela parte dianteira onde fica o cobrador e que se parece, pelo levantamento, com uma pequena terraplenagem. A opção “passando per” deixa em aberto essas duas possibilidades também no texto italiano. Refere-se que para a interpretação da oração foram interpelados dois leitores capacitados que também ficaram na dúvida sobre os significados possíveis.
[4] L’autrice usa in portoghese l’espressione “fazer ponto” che letteralmente in italiano è “fare punto”, al posto de “pôr ponto” che in italiano sarebbe tradotto con la più usuale espressione “mettere un punto”. Si è preferito mantenere l’espressione più strana perché anche l’autrice pur avendo a sua disposizione l’espressione più convenzionale, ha optato per l’altra. In traduzione quindi l’espressione “fare un punto” o “far punto” devono intendersi come la capacità di mettere un punto, mettere fine ad una situazione. Il passaggio con quest’espressione diventa più comprensibile leggendo il paragrafo successivo in cui si cita Hemingwa morto suicida, così come la stessa autrice che si toglierà la vita a soli 31 anni.
A autora usa em português a expressão “fazer ponto” que literalmente em italiano é “fare punto”, no lugar de “pôr ponto” que em italiano se traduziria com a expressão mais usual “mettere un punto”. Preferiu-se manter a expressão mais estranha porque a autora, até tendo à sua disposição uma expressão mais convencional, optou pela outra. Em tradução, então, a expressão “fare un punto” ou “fare punto” tem que ser entendida como a capacidade de pôr ponto, ou seja, pôr fim a uma situação. A passagem com essa expressão, torna-se ainda mais compreensível lendo o parágrafo sucessivo em que se menciona o Hemingway morto suicida, assim como a própria autora, que infelizmente, tirará a sua vida com a jovem idade de 31 anos.
[5] La sequenza “così davvero”, che mette due avverbi di seguito (“così” in questo caso è usato nella funzione avverbiale) intensifica la portata del verbo riprendendo la costruzione per eccesso del testo originale “tão verdadeiramente”. A sequência “così davvero” intensifica a portada do verbo, retomando a construção por excesso do texto original “tão verdadeiramente”.
[6] Il gioco di parole della sequenza portoghese si perde nella traduzione italiana. La parola “chama” tradotta con “fiamma”, ha la stessa grafia della terza persona singolare del verbo “chamar” (chiamare), “chama” per l’appunto, e creerebbe così una connessione sonora per remissione con la parola omofona in posizione anteriore, creando anche un effetto labirinto nella lettura. Soltanto dopo una prima lettura si capisce che “chama” è il soggetto di “conjuga” e “alcovas” tradotto con “talami” il complemento oggetto, anche se frustra l’aspettativa di trovarvi un verbo all’infinito, che completerebbe adeguatamente il verbo “conjuga”. Il verbo conjuga assume così anche un altro significato oltre a quello grammaticale che è quello di unire. O jogo de palavras da sequência portuguesa se perde na tradução italiana. A palavra “chama” traduzida com “fiamma”, tem a mesma grafia da terceira pessoa do singular do verbo “chamar”, ou seja, “chama”, criando assim uma conexão sonora com a palavra homófona anteriormente usada, e gerando também um efeito labirinto na leitura. Somente depois de uma primeira leitura se entende que “chama” é o sujeito de “conjuga” e “alcovas” traduzido com “talami” é o objeto direto, ainda que não responda a expectativa de encontrar nesse lugar um verbo no infinitivo que complementaria adequadamente o verbo “conjuga”. O verbo “conjuga” assim assume também outro significado que é o de unir.
Trecho retirado de Antigos e soltos, poemas da pasta rosa IN: Poética de Ana Cristina Cesar (São Paulo: 2013, originalmente escritos na década de 1970).
Tardes de sábado. Que gosto desgraçado de não acontecer. Noites de sábado. Ar de espera. Chove e Copacabana se ilumina. A Eneida por ler. Me enchem de azia estas noites cheias de Eneida por ler. Esqueci de tomar o remédio, li os cabos e os rabos do Pasquim, já pensou uma filha nossa chamada, se chamando Eneida? Meu deus do céu, eu já estou falando em filha nossa! Que nossa o quê? Esse Rio de Janeiro está tão completamente, que lugar sem mais nada, aqui a gente senta sábado de chuva de noite para ouvir Brahms e curtir Virgílio! Havia um tempo, eu amava a Clarice Lispector de todos os meus corações, eu escrevia assim no plural nas cartas infinitas, esperava a hora da chegada do homem preso nas horas da rua, sentava com o olhar de indiferença no ônibus lésbico pelo aterro frontal; sempre os muitos adjetivos se assoando e as mútuas cedilhas. Iria dar aula de inglês para aquele pessoal que pagava para ver, escrevi parágrafos inteiros: O tempo das palavras e dos motivos e dos ritmos muito pra cá de favoritos. Os telefonemas às duas, as saudades de Londres, o olho traindo, traindo pelos parques com a consciência dos que traem e depois racionalizam, racionalizam para aguentar os orgasmos nunca vindos. As palavras, os motivos, os ritmos e a biblioteca, os agonizantes do sol, as repetições, como eu me repito, como eu me repito, em acordes noviços. Cansei das entrevistas em que eu nunca figuro, das concordâncias desgastadas e dos complementos que sucedem a minha própria ideia de tempo. Fiz um ponto sim, nunca mais fiz oração nem vi televisão, mas antigamente chegavam cartas, eu ficava esperando as respostas (só certas respostas), um dia, qual foi mesmo o calendário sem vitórias, quem fechou a porta em cima de preposições supérfluas? Eu sei, mamãe, você não gosta nada desses estilos superpostos, e meu desejo de jabuticaba é mais forte ainda, o telefone despencou, tem também a incapacidade de fazer ponto, será a tal dificuldade em acabar, de que falou Hemingway (mas ele acabou, ele fez gesto de acabar!) ou uma falta de ar intrínseca que não permite retomadas de fôlego bruscas ou repouso, anjos da guarda, óculos metassimbólicos? Não quero dizer nada além do presente que a criação não me nega, não tem a menor significação além das voltas que dá em torno das voltas que dá entorno das voltas que dá em torno, pra que uma enciclopédia, meu pai azul? Resolve-se o problema quando se começa ou se deixa de falar no problema? Que pergunta tão verdadeiramente clara, e tudo por causa de um ponto de interrogação. Como suprir o verbo suprir. Será ou não que devo usar o arrazoado com zê na tradução de Julius Caesar? Lá eles te chamavam de Caeser? me dá um choque daqueles, não escreva por superstição, conta aquela historinha do anão que enganava os — como foi mesmo que o doutor que não gosta de preto disse? — incautos, a ampola quebrou se alguém quiser fazer análise sintática às minhas custas, não diga incautos era objeto, era um vocativo, vocativo aos que deixam de ler, sentam ao volante e dizem que não tem jeito, têm vontade de dormir com a criatura ao lado mas não têm coragem de se confessar pouco impessoais, fazem festinhas sem maconha de vez em quando e me levam por ruas arborizadas, uma volta de bicicleta, o inexplicável a serviço do Autor somente, do autor somente, nenhum anglicismo, Brahms na noite no trecho singular circular labirintos sabáticos precipitações e estes plurais muito queridos que me abstraem ao máximo e constroem a única ereção triunfante de uma cabeça de voz chata: detesto o cheiro do creme, o gosto da azeitona perdida e a galinha fora de hora. Perdi as espinhas e os cachimbos, os suspiros, as iniciais, a verruga, minhas raízes. Nunca me analisem sintaticamente estes versos nem ponham a fusa do medo da morte nos jornais no meio de todo o touquismo, aflito, chico buarque era muito interessante, eu mesmo ouvi naquele tempo de bolo de fubá e Copacabana. Hoje além. A lista graciosa. Até chegar o momento. Eu nunca inventei. A ampola dentro da minha mão soa acorde de Brahms. Quando a ampola se fecha em ampola chegamos ao começo da noite. Copacabana de sábado, de século. Meu lustre tremula lânguido, chama o velho pai híbrido de emoção latente, chama para a mesa, chama o vizinho, chama a prova do bolo do vizinho, chama a coalhada conta os copos esquece a carta no fundo das outras cartas que a gaveta não se abra nunca, chama. Se fecha sobre a ampola, chama conjuga alcovas, divinos, doentes, cruzes, pontes de cruzes, sopas sôfregas de cruzes, chama as cruzes as pontes prontas silogismos rimas sagradas coração de jesuses deusos bezerros debaixo do curral. Ouçam a palavra clássica. Encurralados de cima a abaixo. As orações secularizadas viram espasmos gramaticais. Pifaram. Ninguém vê ninguém vem hoje ao baile que ninguém vê. Homeopaticamente os cortinados se inserem: entrepulos, dores de parto, sem que os nascimentos valham muito os recomeços intrépidos dos tenham-dito.
Referência bibliográfica:
CESAR. Ana Cristina. Poética. Companhia das Letras: São Paulo, 2016 (p. 341-343).
Trecho retirado de Antigos e soltos, poemas da pasta rosa IN: Poética de Ana Cristina Cesar (São Paulo: 2013, originalmente escritos na década de 1970).
Tardes de sábado. Que gosto desgraçado de não acontecer. Noites de sábado. Ar de espera. Chove e Copacabana se ilumina. A Eneida por ler. Me enchem de azia estas noites cheias de Eneida por ler. Esqueci de tomar o remédio, li os cabos e os rabos do Pasquim, já pensou uma filha nossa chamada, se chamando Eneida? Meu deus do céu, eu já estou falando em filha nossa! Que nossa o quê? Esse Rio de Janeiro está tão completamente, que lugar sem mais nada, aqui a gente senta sábado de chuva de noite para ouvir Brahms e curtir Virgílio! Havia um tempo, eu amava a Clarice Lispector de todos os meus corações, eu escrevia assim no plural nas cartas infinitas, esperava a hora da chegada do homem preso nas horas da rua, sentava com o olhar de indiferença no ônibus lésbico pelo aterro frontal; sempre os muitos adjetivos se assoando e as mútuas cedilhas. Iria dar aula de inglês para aquele pessoal que pagava para ver, escrevi parágrafos inteiros: O tempo das palavras e dos motivos e dos ritmos muito pra cá de favoritos. Os telefonemas às duas, as saudades de Londres, o olho traindo, traindo pelos parques com a consciência dos que traem e depois racionalizam, racionalizam para aguentar os orgasmos nunca vindos. As palavras, os motivos, os ritmos e a biblioteca, os agonizantes do sol, as repetições, como eu me repito, como eu me repito, em acordes noviços. Cansei das entrevistas em que eu nunca figuro, das concordâncias desgastadas e dos complementos que sucedem a minha própria ideia de tempo. Fiz um ponto sim, nunca mais fiz oração nem vi televisão, mas antigamente chegavam cartas, eu ficava esperando as respostas (só certas respostas), um dia, qual foi mesmo o calendário sem vitórias, quem fechou a porta em cima de preposições supérfluas? Eu sei, mamãe, você não gosta nada desses estilos superpostos, e meu desejo de jabuticaba é mais forte ainda, o telefone despencou, tem também a incapacidade de fazer ponto, será a tal dificuldade em acabar, de que falou Hemingway (mas ele acabou, ele fez gesto de acabar!) ou uma falta de ar intrínseca que não permite retomadas de fôlego bruscas ou repouso, anjos da guarda, óculos metassimbólicos? Não quero dizer nada além do presente que a criação não me nega, não tem a menor significação além das voltas que dá em torno das voltas que dá entorno das voltas que dá em torno, pra que uma enciclopédia, meu pai azul? Resolve-se o problema quando se começa ou se deixa de falar no problema? Que pergunta tão verdadeiramente clara, e tudo por causa de um ponto de interrogação. Como suprir o verbo suprir. Será ou não que devo usar o arrazoado com zê na tradução de Julius Caesar? Lá eles te chamavam de Caeser? me dá um choque daqueles, não escreva por superstição, conta aquela historinha do anão que enganava os — como foi mesmo que o doutor que não gosta de preto disse? — incautos, a ampola quebrou se alguém quiser fazer análise sintática às minhas custas, não diga incautos era objeto, era um vocativo, vocativo aos que deixam de ler, sentam ao volante e dizem que não tem jeito, têm vontade de dormir com a criatura ao lado mas não têm coragem de se confessar pouco impessoais, fazem festinhas sem maconha de vez em quando e me levam por ruas arborizadas, uma volta de bicicleta, o inexplicável a serviço do Autor somente, do autor somente, nenhum anglicismo, Brahms na noite no trecho singular circular labirintos sabáticos precipitações e estes plurais muito queridos que me abstraem ao máximo e constroem a única ereção triunfante de uma cabeça de voz chata: detesto o cheiro do creme, o gosto da azeitona perdida e a galinha fora de hora. Perdi as espinhas e os cachimbos, os suspiros, as iniciais, a verruga, minhas raízes. Nunca me analisem sintaticamente estes versos nem ponham a fusa do medo da morte nos jornais no meio de todo o touquismo, aflito, chico buarque era muito interessante, eu mesmo ouvi naquele tempo de bolo de fubá e Copacabana. Hoje além. A lista graciosa. Até chegar o momento. Eu nunca inventei. A ampola dentro da minha mão soa acorde de Brahms. Quando a ampola se fecha em ampola chegamos ao começo da noite. Copacabana de sábado, de século. Meu lustre tremula lânguido, chama o velho pai híbrido de emoção latente, chama para a mesa, chama o vizinho, chama a prova do bolo do vizinho, chama a coalhada conta os copos esquece a carta no fundo das outras cartas que a gaveta não se abra nunca, chama. Se fecha sobre a ampola, chama conjuga alcovas, divinos, doentes, cruzes, pontes de cruzes, sopas sôfregas de cruzes, chama as cruzes as pontes prontas silogismos rimas sagradas coração de jesuses deusos bezerros debaixo do curral. Ouçam a palavra clássica. Encurralados de cima a abaixo. As orações secularizadas viram espasmos gramaticais. Pifaram. Ninguém vê ninguém vem hoje ao baile que ninguém vê. Homeopaticamente os cortinados se inserem: entrepulos, dores de parto, sem que os nascimentos valham muito os recomeços intrépidos dos tenham-dito.
Referência bibliográfica:
CESAR. Ana Cristina. Poética. Companhia das Letras: São Paulo, 2016 (p. 341-343).
Tradução italiana de um trecho retirado de Antigos e soltos, poemas da pasta rosa IN: Poética de Ana Cristina Cesar (São Paulo: 2013, originalmente escritos na década de 1970).
l’ampolla
Sabato sera. Il sapore sciagurato delle cose che non succedono. Sabato notte. Aria di attesa. Piove e Copacabana si illumina. L’Eneide da leggere. Mi fanno venire il bruciore di stomaco queste notti piene di Eneide da leggere. Ho dimenticato di prendere le medicine, ho letto le cime e i fondi[i] del Pasquim, hai già pensato se una figlia nostra si chiamasse Eneide? Mio Dio, già sto parlando di una figlia nostra! Che? Nostra cosa? Questa Rio de Janeiro è così completamente,[ii] davvero un luogo senza più nulla, qui la gente si siede nei sabati di pioggia notturna ad ascoltare Brahms e a godersi Virgilio! C’è stato un tempo in cui amavo Clarice Lispector con tutti i miei cuori, lo scrivevo proprio così al plurale in lettere infinite, aspettavo l’ora d’arrivo dell’uomo imprigionato nelle ore della strada, sedevo con sguardo indifferente nell’autobus lesbico passando per il terrapieno frontale;[iii] sempre i molti aggettivi a soffiarsi e le cediglie mutue. Avrei dato lezione di inglese a quelle persone che pagavano per vedere, avevo scritto paragrafi interi: Il tempo delle parole e dei motivi e dei ritmi tutt’altro che preferiti. Le telefonate alle due, la nostalgia di Londra, l’occhio tradendo, tradendo per i parchi con la coscienza di quelli che tradiscono e dopo razionalizzano, razionalizzano per sopportare gli orgasmi mai arrivati. Le parole, i motivi, i ritmi e la biblioteca, gli agonizzanti del sole, le ripetizioni, quanto mi ripeto, quanto mi ripeto, in accordi per principianti. Sono stanca delle interviste in cui non compaio mai, delle concordanze consumate e dei complementi che si susseguono alla mia stessa idea di tempo. Ho fatto un punto,[iv] sì, non ho mai più fatto una preghiera, né visto la televisione, ma un tempo arrivavano lettere, io mi mettevo ad aspettare le risposte (soltanto alcune risposte), un giorno, qual è stato esattamente il calendario senza vittorie, chi ha chiuso la porta sulle preposizioni superflue? Lo so, mamma, a te non piacciono nemmeno un po’ gli stili sovrapposti, e la mia voglia di jabuticaba è ancora più forte, il telefono è precipitato e anche la mia capacità di far punto, sarà la cosiddetta difficoltà a finire, di cui parla Hemingway (ma lui l’ha fatta finita, ha compiuto il gesto di finire!) o una mancanza di aria intrinseca che non permette riprese di fiato brusche o riposo, angeli custodi, occhiali metasimbolici? Non voglio dire nulla al di là del presente che la creazione non mi nega, non ha il benché minimo significato al di là dei giri che da in torno ai giri che dà intorno ai giri che dà in torno, perché mai un’enciclopedia, padre mio celeste? Si risolve il problema quando si comincia o si smette di parlare del problema? Che domanda così davvero[v] chiara, e tutto a causa di un punto interrogativo. Come sopperire il verbo sopperire. Devo usare o no raziocinio con la zeta nella traduzione di Giulio Cesare? Là ti chiamavano Caeser? Dammi uno di quegli shock, non scrivere per superstizione, racconta quella storiella del nano che ingannava gli — come era esattamente che aveva detto il dottore a cui non piacciono i neri? — incauti, l’ampolla si è rotta se qualcuno vuol fare l’analisi sintattica alle mie spalle, non dire incauti era il complemento oggetto, era un vocativo, vocativo per quelli che smettono di leggere si siedono al volante e dicono che non c’è verso, hanno voglia di dormire con una creatura accanto ma non hanno coraggio di confessarsi poco impersonali, fanno seratine senza spinelli di tanto in tanto e mi portano per strade alberate, un giro in bicicletta, l’inspiegabile soltanto a servizio dell’Autore, soltanto dell’autore, nessun anglicismo, Brahms nella notte nel tratto singolare circolare labirinti sabatici precipitazioni e questi plurali molto cari che mi astraggono al massimo e costruiscono la sola erezione trionfante di una testa dalla voce antipatica: detesto l’odore di crema, il gusto dell’oliva persa e la gallina a sproposito. Ho perso i brufoli e le pipe, i sospiri, le iniziali, la verruca, le mie radici. Non analizzatemi mai sintatticamente questi versi né tanto meno metteteci la nota della paura della morte nei giornali tra tanto fronzolismo, aflitto, chico buarque era molto interessante, io stessa l’ho ascoltato in un’epoca di dolci di fubá e di Copacabana. Oggi oltre. La lista divertente. Fino a che non arrivi il momento. Io non ho mai inventato. L’ampolla nella mia mano suona accordi di Brahms. Quando l’ampolla si chiude in ampolla giungiamo all’inizio della notte. Copabana al sabato, al secolo. Il mio lampadario trema languido, chiama il vecchio padre ibrido di emozione latente, chiama a tavola, chiama il vicino, chiama l’assaggio del dolce del vicino, chiama la cagliata conta i calici dimentica la lettera sotto alle altre lettere che il cassetto non si apra mai, chiama. Si chiude sull’ampolla, fiamma[vi] coniuga talami, divini, degenti, croci, ponti di croci, brodi voraci di croci, chiama le croci i ponti pronti sillogismi rime sacre cuori dei gesùi dii vitelli nella stalla. Ascoltate la parola classica. Installati dall’alto verso il basso. Le orazioni secolarizzate hanno visto spasmi grammaticali. Andate in panne. Nessuno vede nessuno viene oggi alla festa che nessuno vede. Omeopaticamente i drappeggi si inseriscono: trasalti, dolori di parti, senza che le nascite valgano molto i nuovi inizi intrepidi degli abbiano-detto.
Referência bibliográfica:
CESAR. Ana Cristina. Poética. Companhia das Letras: São Paulo, 2016 (p. 341-343).
[1] L’espressione brasiliana “de cabo a rabo” significa letteralmente “dalla testa alla coda” e viene usata come l’espressione idiomatica “da cima a fondo” per indicare qualcosa nella sua interezza. La ragione per cui ho deciso di tradurre “le cime e i fondi del Pasquim”, stravolgendo un’espressione idiomatica che si pluralizza e perde le preposizioni, è perché anche nell’originale, l’espressione idiomatica corrispondente risulta stravolta. L’autrice probabilmente per trasmettere l’idea di aver letto davvero tutto della rivista, usa una forma al plurale togliendo le preposizioni de…a, che servono per indicare una porzione circoscritta, un intervallo, nonostante nella locuzione dell’espressione idiomatica lo indichi nella sua interezza. Ho deciso dunque di lasciare questo senso di straniamento in traduzione che segna irrimediabilmente l’originale. A expressão brasileira “de cabo a rabo” significa literalmente “da cabeça até o rabo” para indicar algo na sua inteireza. A razão pela qual decidi traduzir “le cime e i fondi del Pasquim”, distorcendo uma expressão idiomática que se pluraliza e perde as preposições, é porque, também no original, a expressão idiomática correspondente resulta distorcida. A autora, provavelmente, para transmitir a ideia de ter lido realmente tudo da revista, usa uma forma plural tirando as preposições de…a que servem para indicar uma porção circunscrita, um intervalo, apesar de a locução da expressão idiomática indicar essa porção/intervalo na sua inteireza. Decidi, portanto, deixar esse sentido de estranhamento em tradução que marca irremediavelmente o original.
[2] La struttura italiana che sembra essere ellittica, unendo due frasi senza completare la prima riflette la struttura originale, si è preferito per ovvie ragioni stilistiche non rendere commestibile il testo dell’autrice brasiliana che si presenta opaco ed enigmatico in vari punti. A estrutura italiana que se apresenta elíptica, unindo duas orações sem completar porém a primeira, reflete a estrutura do original. Preferiu-se, por óbvias razões estilísticas, não tornar comestível o texto da autora brasileira que se apresenta opaco e enigmático em vários pontos.
[3] “Pelo aterro frontal” tradotto con “passando per il terrapieno frontale”, con l’aggiunta di “passando per” è una sequenza estremamente ambigua, infatti la preposizione “por” lascerebbe in aperto due possibilità interpretative. La prima possibilità indicherebbe che l’autobus va in direzione ad un terrapieno che si dispiega innanzi, cosa probabile giacché si tratta di Rio de Janeiro ed esiste di fatto una pista esclusiva per gli autobus che passa per l’Aterro del Flamengo. La seconda opzione indicherebbe invece che la passeggera entra per la parte davanti dell’autobus dove si trova anche il bigliettaio e che somiglia, poiché rialzato, ad un piccolo terrapieno. L’opzione “passando per” mantiene aperte le due possibilità anche nel testo italiano. Si riferisce inoltre che per l’interpretazione del periodo sono stati interpellati due lettori capacitati, anch’essi dubbiosi circa i possibili significati. “Pelo aterro frontal” traduzido com “passando per il terrapieno frontale”, com o acréscimo de “passando per” é uma sequência extremamente ambígua, pois a preposição “por” deixaria duas possibilidades em aberto. A primeira possibilidade indicaria que o ônibus vai em direção do aterro que se desenvolve frontalmente, o que, em se tratando do Rio de Janeiro, seria viável, já que existe de fato uma pista específica para os ônibus que passam pelo Aterro do Flamengo. A segunda opção poderia indicar que a passageira entra no ônibus pela parte dianteira onde fica o cobrador e que se parece, pelo levantamento, com uma pequena terraplenagem. A opção “passando per” deixa em aberto essas duas possibilidades também no texto italiano. Refere-se que para a interpretação da oração foram interpelados dois leitores capacitados que também ficaram na dúvida sobre os significados possíveis.
[4] L’autrice usa in portoghese l’espressione “fazer ponto” che letteralmente in italiano è “fare punto”, al posto de “pôr ponto” che in italiano sarebbe tradotto con la più usuale espressione “mettere un punto”. Si è preferito mantenere l’espressione più strana perché anche l’autrice pur avendo a sua disposizione l’espressione più convenzionale, ha optato per l’altra. In traduzione quindi l’espressione “fare un punto” o “far punto” devono intendersi come la capacità di mettere un punto, mettere fine ad una situazione. Il passaggio con quest’espressione diventa più comprensibile leggendo il paragrafo successivo in cui si cita Hemingwa morto suicida, così come la stessa autrice che si toglierà la vita a soli 31 anni.
A autora usa em português a expressão “fazer ponto” que literalmente em italiano é “fare punto”, no lugar de “pôr ponto” que em italiano se traduziria com a expressão mais usual “mettere un punto”. Preferiu-se manter a expressão mais estranha porque a autora, até tendo à sua disposição uma expressão mais convencional, optou pela outra. Em tradução, então, a expressão “fare un punto” ou “fare punto” tem que ser entendida como a capacidade de pôr ponto, ou seja, pôr fim a uma situação. A passagem com essa expressão, torna-se ainda mais compreensível lendo o parágrafo sucessivo em que se menciona o Hemingway morto suicida, assim como a própria autora, que infelizmente, tirará a sua vida com a jovem idade de 31 anos.
[5] La sequenza “così davvero”, che mette due avverbi di seguito (“così” in questo caso è usato nella funzione avverbiale) intensifica la portata del verbo riprendendo la costruzione per eccesso del testo originale “tão verdadeiramente”. A sequência “così davvero” intensifica a portada do verbo, retomando a construção por excesso do texto original “tão verdadeiramente”.
[6] Il gioco di parole della sequenza portoghese si perde nella traduzione italiana. La parola “chama” tradotta con “fiamma”, ha la stessa grafia della terza persona singolare del verbo “chamar” (chiamare), “chama” per l’appunto, e creerebbe così una connessione sonora per remissione con la parola omofona in posizione anteriore, creando anche un effetto labirinto nella lettura. Soltanto dopo una prima lettura si capisce che “chama” è il soggetto di “conjuga” e “alcovas” tradotto con “talami” il complemento oggetto, anche se frustra l’aspettativa di trovarvi un verbo all’infinito, che completerebbe adeguatamente il verbo “conjuga”. Il verbo conjuga assume così anche un altro significato oltre a quello grammaticale che è quello di unire. O jogo de palavras da sequência portuguesa se perde na tradução italiana. A palavra “chama” traduzida com “fiamma”, tem a mesma grafia da terceira pessoa do singular do verbo “chamar”, ou seja, “chama”, criando assim uma conexão sonora com a palavra homófona anteriormente usada, e gerando também um efeito labirinto na leitura. Somente depois de uma primeira leitura se entende que “chama” é o sujeito de “conjuga” e “alcovas” traduzido com “talami” é o objeto direto, ainda que não responda a expectativa de encontrar nesse lugar um verbo no infinitivo que complementaria adequadamente o verbo “conjuga”. O verbo “conjuga” assim assume também outro significado que é o de unir.